Mambolosco torna con Facendo Faccende: “All’inizio non credevo in Twerk, in futuro farò l’attore”
A tre anni da Arte e a due estati di distanza dall'Ep con Boro Boro Calmo, Mambolosco pubblicherà tra poche ore il suo secondo album: si tratta di Facendo Faccende, 20 tracce, tra cui le collaborazioni con Anna, Emis Killa, Niko Pandetta, Rondodasosa, Sling, Tony Boy e Villabanks. Un disco che non ha lavorato in sottrazione, ma che ha raccolto gli ultimi anni di lavoro del rapper, anche con uno sguardo all'appeal internazionale del rap italiano. William Miller III Hickman, il vero nome di Mambolosco, non vuole però legarsi solo al campo musicale. Madrelingua inglese, anche per le sue origini statunitensi, ha confessato di voler provare in futuro la strada del cinema. Qui l'intervista a Mambolosco.
Facendo Faccende parte da Milano, con un treno che porterà i fan alla presentazione al Tunnel Club poche ore prima dell'uscita del disco. Perché hai scelto questa location?
Stavo riflettendo con il management a qualcosa di mai visto prima: abbiamo pensato al viaggio in treno come una cosa figa per i fan. A livello mediatico potevamo arrivare a tante persone e abbiamo deciso di farla. Infatti, ti dico, ora sono più in ansia per il concerto che per l'uscita del disco (ride n.d.r).
Quando e come nasce il titolo Facendo Faccende?
È qualcosa nato sui social, facendo storie su Instagram. Sono molto attivo, racconto la mia giornata, mostro quello che faccio molto spesso. Un giorno ho scritto: ‘Oggi devo fare faccende, sono in giro, non mi chiamare'. Ed è partito così il caos, con i fan che mi scrivevano ‘sei un grande'. Poi sono andato in studio da Nardi per una session e mi ha messo su un beat. È diventato poi Facendo Faccende e abbiamo capito che era il titolo giusto per l'album.
Pensavo fosse un'allusione anche all'iperproduttività: hai pubblicato tanta musica negli ultimi quattro anni.
Devo ammettere che sto molto in studio, anche se molto spesso ci vado a fumare e giocare alla PlayStation. In questo lavoro è essenziale che tu stia preso bene, quindi magari c'è il giorno in cui non chiudi nulla, altri in cui registri due tracce o magari un ritornello. A livello personale, però mi dico sempre che potrei lavorare e impegnarmi un po' di più, senza però dimenticare che la musica deve essere un divertimento.
Qualcosa che ti rilassi?
Faccio canzoni molte canzoni leggere, solo alcune conscious.
Facendo Faccende è un album da 20 tracce, oltre un'ora di musica, una durata distante dagli standard del rap italiano.
È una cosa molto americana, anche perché spesso vedo tanti miei colleghi che fanno 30 tracce e poi nell'album ne mettono solo 12: sembra quasi che non le ritengano all'altezza.
Tu invece?
Sono convinto di poter giudicare la mia musica, ma credo che la parola finale la debbano dare i fan. Tanto volte ho registrato cose che non mi vanno particolarmente a genio, poi le faccio sentire a producer ed amici e mi dicono che sono bombe. Per esempio, una delle mie hit, Twerk: è una canzone che in qualsiasi serata, in qualsiasi locale, la senti. Prima di uscire, non le davo tanto peso, anzi pensavo anche che avrei potuto non pubblicarla.
I numeri hanno detto altro…
Abbiamo fatto platino, 50 milioni di streaming e quando la faccio ai live la gente salta. Sinceramente la vedo come gli artisti americani, dove in un album da 22 tracce ci sono sia le hit che metto davanti, ma poi voglio che ci siano anche le altre 15 perché il giudizio finale lo dà il pubblico. Questo problema delle tracce è abbastanza italiano.
E invece dei brani che pensavi fossero delle hit e poi non sono andate come avresti voluto?
Secondo me tante, te ne dico una di Arte: per me Benzina era una traccia fortissima, si muoveva sullo stesso stile di Guarda come Flexo 1 e 2. Non è andata come pensavo, forse perché gli avrei dovuto dare più importanza come singolo, ma alla fine è entrata nell'album lo stesso.
Oltre a stare in studio, cosa ti ha rilassato nel periodo della produzione dell'album?
Sicuramente andare in palestra e fare sport. Ci sono periodi in cui fare palestra, anche in casa, mi fa sentire meglio. Per il disco ho scritto sicuramente di più in estate, ho ascoltato anche più musica.
C'è un passo di Come Loro in cui dici che è molto più facile tornare giù che salire. Qual è stato uno dei primi momenti in cui hai sentito che la tua musica era diventata rilevante?
Era il 2018 e dovevo cantare in una discoteca a Forlì. Era uno dei miei primi live e stavo con Edo Fendy. Ricordo che prima del live avevo un'ansia incredibile, ma quando salgo sul pazzo mi rendo conto che la gente conosceva i pezzi meglio di me. Lì ho detto che era possibile farcela.
Sei italo americano ed è innegabile dire che in Italia hai portato un certo tipo di slang, un linguaggio di chiaro stampo USA: penso, per esempio, a Guarda come Flexo. Ma già prima avevi cantato anche una strofa in inglese in Mama I Did It Again con Luscià. Hai pensato anche a un mercato internazionale per la tua musica?
Ho sicuramente in testa il fatto di voler uscire dall'Italia, magari di spaccare a livello internazionale. Però per me non ha senso fare brani in italiano con una strofa in inglese: penso sia più un vanto per l'artista italiano.
Non c'è alcun contatto tra le due realtà?
Nulla di genuino nella collaborazione, questi vengono pagati e noi li spingiamo anche in Italia, aprendogli magari un mercato: a noi riempiono l'ego. Alcuni dei feat di miei colleghi con artisti americani sono legati al business, anche perché loro non hanno mai spinto a livello social l'artista o la canzone.
Mentre se tu cantassi in inglese per il loro mercato?
Io ho questa fortuna di essere madrelingua, ma poi torniamo a un punto fondamentale: la street credibility, che per loro è centrale. Puoi anche essere il migliore ma se non ce l'hai non ti rispettano, anche perché come popolo veniamo ancora stereotipizzati con la pizza.
Un'impresa?
Cercare di farcela in America è molto difficile, ma lo speriamo. Io sono italoamericano, ho ancora i miei parenti che abitano lì e ascoltano i miei pezzi, sanno che sono forte. Ma non potrei esplodere perché non vengo da lì, non ho le loro radici.
Prima hai accennato a quanto utilizzi i social, com'è cambiato il rapporto con loro, anche nella promozione della musica?
Per me ci sono due tipi di approccio ai social, da una parte ci sono quelli non devono essere presenti sui social, pubblicano musica e hanno il loro pubblico. Dall'altra parte ci sono presenti, quelli che vivono al cento per cento quella "bolla". Io penso di non aver bisogno di essere costante, ma voglio esserci perché mi prende bene. Poi sono il capo della situazione.
Su TikTok sei tra i rapper italiani più seguiti.
Ho più follower di Sfera Ebbasta, poi mi faccio vedere tanto lì. In un certo senso sono me stesso lì sopra, non ho maschere. Vedo tanti colleghi che preparano tante cose per fare una foto e un video. Io non ne ho bisogno, ho 30 anni, non devo dimostrare niente a nessuno. Viviamo in un'epoca in cui mostrare una mazzetta di soldi fa visualizzazioni e a me piace ostentare.
Ti sei mai visto in panni diversi da quelli del rapper?
Ammetto che ho deciso di fare dei corsi di recitazione, perché vorrei provare a fare l'attore. Vorrei esprimere il lato internazionale di William, di Mambo. Musicalmente penso di aver capito quali sono i limiti e fino a dove si può arrivare. Io vorrei fare di più anche perché ci sono meno pregiudizi, poi sono madrelingua inglese, perché mio padre è americano.
Ritornando alla tua adolescenza, hai raccontato più volte delle festività passate negli Stati Uniti, soprattutto in quel periodo. C'è un disco che ti ha avvicinato al rap?
2001 di Dr.Dre, ammetto di avere le canzoni del disco nelle mie playlist quotidiane. Ricordo che un giorno l'ho rubato a mio padre: aveva una custodia con centinaia di CD di tutti i rapper del momento. La copertina aveva una foglia di marijuana gigante sopra: l'ho sfilato e l'ho portato nel mio lettore cd in stanza. Non ho ascoltato altro per due mesi, infatti mio padre si accorse che mancava nella collezione e venne da me a chiedermi che fine avesse fatto.
La Golden Era.
In quel periodo sono usciti No Limit Top Dogg di Snoop Dogg, Aftermath di The Game. Da quando ho 13 anni ho avuto la fissa per il rap: infatti non ho attraversato nessuna fase rock o punk.
Nessun progetto italiano?
Nessuno.
Tra le collaborazioni spicca anche Niko Pandetta, perché lo hai voluto nel tuo album?
Conosco Nico da tanto, abbiamo sempre parlato di musica ed è una persona che ascolta tanto. Poi Nico è l'unico vero, uno che può dire certe cose e raccontare certi ambienti. Lo volevo nel disco e fortunatamente ce l'abbiamo fatta.
Abbiamo parlato di artisti che vogliono spaccare in America, e una delle hit del disco è Karma con Rondodasosa. Com'è nato il brano?
Credo prima di tutto che sia uno dei rapper più caldi del momento, ma è anche un bravo ragazzo con i suoi problemi e la gente tende a farli scomparire. Poi musicalmente spacca e per questo l'ho invitato per una session in studio: abbiamo provato a fare qualcosa assieme ma non riuscivamo. Niente che ci piacesse e per questo avevamo lasciato stare. È passata qualche settimana e insieme al mio manager abbiamo pensato di inviargli Karma, che nel frattempo avevo fatto uscire su TikTok. Si è preso così bene che in poche ore ci ha rimandato la strofa: lui lavora come gli americani, non perdono tempo.
Una strofa che in poche settimane ha raccolto quasi cinque milioni di ascolti.
Ricordo che quando ho ascoltato la canzone, ho pensato avesse spaccato più di me. È entrato sul beat come avrei voluto entrarci io.
Traccia preferita del disco?
Street è la traccia più conscious, quella in cui ho scritto un po' di cose mie.