L’urgenza di Vinicio Capossela: “Mi sorprende vedere gente votare Governi che restringono i diritti”
C'è un senso di urgenza che ha portato Vinicio Capossela a pubblicare il suo ultimo album che si intitola, appunto, 13 canzoni urgenti, ma chi ama il cantautore irpino sente anche che nella sua musica c'è una costante urgenza: di ritrovare le radici, di scoprire la musica del mondo, che a sua volta dà il senso del viaggio, fisico e musicale. Ascoltare la discografia di capossela vuol dire viaggiare nel mediterraneo, nei Balcani, negli Stati Uniti, in Sud America, vuol dire riuscire a scoprire suoni, strumenti, lingue, senza mai perdere di vista le radici. Ed è questo che ha portato, per esempio, l'Università Orientale di Napoli a conferirgli la laurea magistrale honoris causa in "Lingue e comunicazione interculturale in area euromediterranea”. Abbiamo parlato con Capossela, di urgenze, diritti, viaggi, Università abbandonate, Sponz festival e radici.
C'è ancora un senso d'urgenza con cui scrivesti queste canzoni?
L'urgenza è uno stato di ricovero che se non viene curata non fa altro che provocare nuove urgenze. Tutte queste canzoni sono scritte a partire dal 24 febbraio 2022, e da allora le cose si sono fatte ancora peggiori e ancora più urgenti, a una guerra se ne aggiungono altre. Tutti i fronti che compongono il registro di queste canzoni sono, mi pare, in aggravamento e quindi hanno un carattere quasi antropologico. Alcune delle questioni di queste canzoni urgenti sono all'esterno, ma moltissime sono all'interno, che è l'unico fronte vero su cui possiamo concretamente operare.
Nel concreto quale urgenza vedi?
Io sono molto sorpreso che in mezza Europa si votino volontariamente delle forze che dichiarano apertamente, nei loro programmi, di volere restrizioni di diritti evidenti e disimpegno sulla scuola pubblica, sulla sanità pubblica, sulla giustizia sociale, anche solo fiscale. Sono cose chiare anche nei programmi, quindi che volontariamente uno si affidi a questo tipo di intenti fa riflettere, ma fa riflettere anche il fatto che un certo bacino elettorale, quello che dovrebbe essere dei lavoratori, si trova a votare per la parte più vicina agli interessi del capitale.
In Italia come si esprime questa preoccupazione?
Ricordo l'attuale presidente del Consiglio che nel non entrare nel cosiddetto "Governo dei migliori" prese a prestito una famosa frase di Brecht che dice che siccome i posti buoni erano tutti occupati, si erano seduti dalla parte del torto. Per Brecht la parte del torto era quella degli oppressi, la parte di chi non aveva nulla rispetto a chi aveva, cioè, al tavolo ci sono le pietanze ma non c'è posto per noi, quindi sentire quel tipo di fazione politica parlare in quel modo è un po' un gioco a ruba bandiera. Io penso soltanto che quella parte del torto a cui si riferiva Brecht era una cosa precisa, mentre a seguire questo tipo di programmi e di istanze si finisce per essere nella parte del torto.
Sei stato insignito della laurea magistrale honoris causa in "Lingue e comunicazione interculturale in area euromediterranea” all'Orientale di Napoli: com'è stato?
Una laurea è una cosa che fa sempre un po' anche di tenerezza, perché uno pensa al suo percorso di studi, a come l'ha interrotto e a tutto quello che significa compiere un percorso di studi in una fase terrorizzante.
Che fase?
Quella in cui piccoli errori o direzioni possono produrre nella lunga distanza delle destinazioni molto diverse. Per prima cosa bisogna tornare a un senso di tenerezza per quell'età e per quella fase della vita in cui lo studio non è soltanto formazione, ma è una scelta di vita, una fase della vita complessa in cui l'università finisce per essere quasi uno specchio di quello che dovrebbe essere il mondo.
Ti senti rappresentato in questa laurea?
Quando ho letto con cura il programma del corso di laurea mi è venuta più voglia di iscrivermi che non di laurearmi. Mi sono detto che bisognerebbe ricevere l'iscrizione onoraria, perché se uno le legge veramente si rende conto che sono materie interessantissime: la mediazione culturale cos'è? È costruire ponti, ma i ponti si costruiscono se sai cosa c'è su una riva e su quest'altra, è nella non conoscenza che attecchiscono le cose su cui si basa la narrazione della paura. Queste materie, che vanno dalla Storia della violenza di genere alla Storia dell'immigrazione, alle lingue del bacino mediterraneo, cioè senza la scorciatoia dell'inglese, sono interessantissime, ma pensate che succederebbe se sapessimo almeno venti parole di arabo! È un corso molto bello e l'Orientale ha una storia bellissima, è stata cosa che rinnova il desiderio di studiare.
Come mai hai dovuto abbandonare l'Università?
Siccome vengo da una famiglia in cui nessuno mai aveva fatto le superiori, già sentivo una specie di responsabilità per cui se uno studia deve studiare per arrivare a "trovare il posto" (di lavoro, ndr). Mi sono iscritto alla facoltà di Economia, forse l'unica materia in cui ero esperto perché ne facevo tantissima, però esauriti gli esami di carattere un po' più sociale, che sono stati anche interessanti per capire come funziona la società, e dopo avere assistito al concerto di Tom Waits al Festival Tenco ho lasciato immediatamente gli studi e sono diventato un disadattato, che non è una soluzione però è un passaggio importante.
La tua musica è una porta verso tanti Paesi: qual è l'importanza del viaggio per te?
I viaggi sono veramente di tanti tipi, l'importante è mettersi nella condizione del viandante, cioè di mettersi a disposizione degli eventi. Mi chiedo cosa sia viaggiare in una maniera così preorganizzata e preordinata, in cui anche semplicemente le mappe non le scopri su una cartina, ma di volta in volta sulle indicazione di uno schermo, sembra quasi di non spostarsi mai, poi i mezzi devono essere lenti perché, parafrasando Totò, "la lentezza è aristocratica e la nobiltà è obbligatoria". Qual è il grande premio del viaggio? L'incontro, mentre il prezzo del viaggio è la separazione. Questo è quello che uno apprende leggendo, per esempio, un meraviglioso scrittore di viaggi che è Patrick Leigh Fermor. Di incontro in incontro senti questa gratitudine, questo senso del tempo e allo stesso tempo la separazione, che è indispensabile per andare avanti, quindi il viaggio è un continuo produrre ricordi e al contempo è un continuo produrre separazioni. Viaggiando, uno può essere sopraffatto o dalla nostalgia continua o da questo senso di gratitudine che alla fine può unire un po' le tappe.
Viaggiare, ma anche tornare alle radici, hai creato un bel festival nella tua comunità, no?
È bello che lo Sponz sia nato come esperienza di comunità e questa comunità non è una comunità legata esclusivamente a quel luogo, non è una comunità di legami di sangue, ma di legami di idee e sono quelli che in realtà sono più abitabili, condivisibili. Ogni posto è terra, però per me è stato molto importante comprendere, per esempio, il dialetto di quel paese (Calitri, ndr), perché i miei genitori, pur non essendo cresciuto lì, ne parlavano il dialetto e quindi per me stare lì, ascoltare e decifrare i sonetti in dialetto è stato fondamentale. Ci vogliono dei punti dove perforare, dei punti di accesso e quelli te li può dare solo un paese con cui hai qualche legame. Però è solo un punto in cui entrare in un giacimento più vasto, che secondo me appartiene a tutti: il mondo della radice, questa grande ombra dell'inconscio collettivo che è la radice, ovvero qualcosa in cui sentirsi a casa.