È “notizia” di ieri che “Luca lo stesso”, il pezzo di Luca Carboni che da due mesi abbondanti impazza un po’ ovunque, ha conquistato il disco d’oro. In altri tempi, quando tale riconoscimento era collegato alla vendita di un milione di copie (ribadiamo: unmilionedicopie) di un vinile o CD, come minimo ci si ubriacava con una cassa di champagne d’annata. Ora che il traguardo si raggiunge – almeno nel caso di un singolo non disponibile in formato fisico, come quello in questione – con venticinquemila fra download e streaming su piattaforme selezionate, ci si potrà concedere al massimo una birra da discount, ma il dato ha comunque una valenza positiva; specie per il cinquantatreenne bolognese, che dopo i grandi successi degli ’80 e dei primi ’90 aveva un po’ perso il contatto, a livello di attenzione mediatica, con la Serie A del pop nazionale. Primo estratto dall’album “Pop-Up”, che è uscito per la Sony il 2 ottobre e che da qualche settimana staziona nei Top 20 (ed è meglio non indagare su quali ridicoli introiti ciò oggi comporti), “Luca lo stesso” sta insomma ribadendo il ritorno di Carboni nelle posizioni di vertice, nel rispetto del piano di “riposizionamento” avviato nel 2013 con “Fisico & politico”; un’antologia, ok, ma sui generis, visto che racchiude tre inediti e che tutti i suoi episodi meno due – sia i vecchi, peraltro reincisi, sia i nuovi – sono stati realizzati in duetto con colleghi fra loro diversissimi: da Franco Battiato a Jovanotti, da Fabri Fibra a Tiziano Ferro, da Elisa a Biagio Antonacci, da Alice a Samuele Bersani, da Miguel Bosè a Cesare Cremonini.
Di solito, domandando a chiunque abbia qualche annetto sulle spalle, “cosa conosci di Luca Carboni?”, la risposta è “Ci vuole un fisico bestiale”; scontatissimo, dato che al tempo fu un autentico tormentone. Senza nulla voler togliere al brano e al fortunatissimo album che lo contiene (“Carboni”, del 1992: è quello dell’altra hit assoluta “Mare mare”, e vendette sul serio il famoso milionedicopie di cui sopra), nonché a una produzione seguente non sempre capita appieno ma coerente con il percorso dell’artista, il Carboni più interessante rimane quello dei primi LP: “…intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film” (1984) e “Forever” (1985), che ebbero buoni riscontri ma non furono proprio blockbuster, e “Luca Carboni” (1987). Non c’entrano né la nostalgia, né la forma mentis un po’ stupidella che porta a reputare le prove iniziali più belle e pure perché non contaminate dai trionfi commerciali: è proprio che quel Luca Carboni lì, a dispetto della stampa che un po’ lo snobbava per il suo essere schivo e a causa di un “impegno” non urlato ma presente, era una mosca bianca nel panorama pop tricolore. “Quel che scrivo”, mi disse il Nostro due anni fa in un’intervista, “è legato alla sfera collettiva, al mio desiderio di rispecchiare e riassumere almeno in parte il mondo che ogni volta vivo. Sono l’ultimo cantautore al quale la RCA abbia offerto un contratto, alla fine del 1982: da lì in poi, per un decennio buono, in tale ambito c’è stato pochissimo, dominavano altre tendenze, e forse per questo la mia storia è, tra virgolette, ‘importante’: non c’erano tanti cantautori che raccontassero la nostra generazione”.
Riascoltato oggi, il Carboni degli esordi rivela ancora, a dispetto degli arrangiamenti che magari suonano troppo anni ’80, una bella freschezza. Accattivanti ma non banali, non prive di intensità benché per certi aspetti “fragili”, le sue canzoni – forti di testi interpretati con toni tra il confidenziale e l’indolente e caratterizzati da un pizzico di gradevole sigmatismo – fotografano una quotidianità malinconica e spesso disillusa, nella quale non manca però una sana (auto)ironia. Dominano i temi sentimentali, ma qua e là, assieme a immagini surreali, emerge la necessità di affrontare questioni sociali di rilievo; emblematica, in tal senso, “Silvia lo sai”, sguardo crudo ma delicatissimo sulla tossicodipendenza. Nonostante i decenni trascorsi da quei giorni, nel ben più smaliziato Carboni del 2015 si ritrova qualcosa del Carboni “under 30”, quello che dichiarava – ma mentendo, come provato da una carriera in continuo movimento e non di abulica attesa – di identificarsi nei giovani “nati per aspettare / che qualcosa si muova e ci venga a cercare”; compresi, ed è un peccato, parecchi arrangiamenti scialbi e prevedibilissimi, che si spera saranno riveduti e corretti in occasione del tour che prenderà il via da Milano il 18 febbraio prossimo.