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LoveGang126: “Raccontiamo Roma con un sound internazionale, oggi sembra tutto la solita solfa”

Lo scorso 21 aprile veniva pubblicato Cristi e Diavoli, il nuovo progetto della LoveGang 126: qui l’intervista al collettivo romano.
A cura di Vincenzo Nasto
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LoveGang 126, foto di Fanpage
LoveGang 126, foto di Fanpage
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LoveGang 126 è uno dei culti del rap romano-centrico, che si identifica nelle figure di Franco, Drone, Pretty Solero, Ketama, Asp, Ugo Borghetti e Nino Brown. Un collettivo che ha deciso di mettere da parte le proprie "traiettorie individuali" per fare posto a un progetto che suonasse classic. Quasi una derivazione degli ascolti iniziali, dal collettivo In the panchine, con all'interno il Truceklan, Gemello e Gel, fino ai Black Moon. Tutto parte e si arresta sui 126 gradini che dividono viale Dandolo da viale Glorioso, a Trastevere. Qui l'intervista alla LoveGang 126.

Com'è stato lavorare a un nuovo progetto da collettivo?

Noi siamo un collettivo che è composto da artisti diversi tra loro e che hanno seguito sempre delle traiettorie individuali anche molto diverse tra di loro. Per la prima volta però abbiamo deciso di riunirci, per questo è stato sicuramente molto diverso dagli altri progetti della LoveGang. Diciamo che questo progetto ha avuto tutti i pro e i "contro" di essere un'opera collettiva, tra cui ovviamente una serie di ostacoli, come la diversità e i compromessi che si incontrano in una situazione del genere.

E invece i pro?

Possiamo dire che eravamo molto agevolati dal fatto di essere in tanti, con teste molto differenti l'una dall'altra. Avevamo la possibilità, ognuno, di aggiungere qualcosa al mosaico.

Quando è nato il titolo Cristo e Diavoli?

Il titolo viene da una barra che era presente nella titletrack, ma anche da una intuizione notturna-estemporanea di Pretty Solero. Piano piano, il titolo con il tempo, ci ha convinto sempre di più, perché restituisce anche il mood. Ma anche l'immaginario, oltre che l'essenza religiosa, riusciva a regalare questa dimensione di ambivalenza. Restituisce un po' uno spaccato di luci e ombre che si completano.

Quali sono i dischi che vi hanno avvicinato e vi hanno formato musicalmente?

In The Panchine è un album che tutti quanti abbiamo trovato geniale. È una disco fatto con un senso di leggerezza, con all'interno un sacco di inside joke. È un progetto che ci metti un po' per entrarci, ma poi quando ci entri, sei proprio in quel viaggio lì. Ovviamente poi ci sono tanti progetti, però penso che quello sia un po' il nostro manifesto.

Per quanto riguarda le produzioni invece?

Per il suono siamo andati a scovare delle influenze più statunitensi, la grande tradizione dei collettivi americani. Dal Wu-Tang Clan ai Black Moon, ai Boot Camp Click.

Che tipo di legame esiste con la tradizione musicale romana? 

Più che con la tradizione popolare romana, questo è un disco di rap romano. Ci sono comunque delle parti di spoken word, anche perché Ugo Borghetti utilizza quel tipo di scrittura.

Come si inserisce Cristi e Diavoli secondo voi in questa timeline?

Pensiamo che sia decisamente un disco hip-hop anche perché il nostro obiettivo era quello di rappresentare il nostro modo di vivere, il nostro modo di stare nella collettività, il nostro modo di essere amici. Quindi più che un disco che fa parte di una corrente di cantautorato, è un progetto che ha un altro tipo di aspettativa. Diciamo che abbiamo avuto la possibilità di fare le barre, le punchline.

E invece com'è stato presentare il disco nel posto in cui è nato il collettivo, in Piazza San Callisto?

È stato il coronamento di un sogno. Una cosa che per noi era impensabile, riuscire a organizzare un evento del genere è stata una grande gioia. Anche perché vedere la piazza piena e entusiasta di questa iniziativa è stata una soddisfazione.

Che legame c'è con i rapper che avete invitati nel disco, come Gel, Gemello, ma anche Side Baby?

È vero che questo è un progetto molto romano-centrico, da tutti i punti di vista, anche per quanto riguarda gli ospiti che abbiamo chiamato. Per come la vedo io, non è tanto una questione di campanilismo, ma il rap è un genere che ti permette di evidenziare anche una dimensione local, che in questo mondo di oggi, rischia un po' di perdersi. È un momento in cui mi sembra sia la stessa solfa da tutte le parti.

Si potrebbe leggere come una dimensione positiva del disco?

Sì, perché evidenziare uno spaccato local, magari con un sound internazionale, è una forza. Senza togliere nulla alle altre città o alle altre realtà, anche il fatto che non avessimo delle strutture ci ha fatto venire magari più voglia di farlo.

Quindi le carenze hanno creato presupposti per la crescita della vostra musica?

In un certo modo sì, anche senza compromessi. Dalle mancanze di strutture, per assurdo, si creano delle occasioni. Basta vedere Milano, che è una città che invece da questo punto di vista, ci appare molto più organizzata. Poi magari quando la gente di Milano viene qui, dice che a Roma abbiamo qualcosa di particolare. Ognuno ha le sue occasioni che si creano per le strutture che ci possono essere come non essere. Per esempio a Napoli, ci sembra una città in cui la gente ha voglia di fare tante cose, forse proprio perché a fronte di una mancanza di strutture preferisce inventarsela da soli.

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