Ligabue: “Non mi sento un rocker, quando ho raggiunto la fama volevo ritirarmi”

Si chiama dedicato a noi il quattordicesimo album di inediti di Ligabue che nell’intervista a Fanpage.it parla della musica, dell’inquietudine che lo spinge a scrivere, del figlio batterista, dei fan e dell’amore per il palco.
A cura di Francesco Raiola
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Ligabue (ph Maurizio Bresciani)
Ligabue (ph Maurizio Bresciani)

Il noi che Ligabue ha inserito nel titolo del suo ultimo album, uscito oggi, è un noi che lo accompagna da sempre: è quel senso di collettività da contrapporre all'individualismo sfrenato dei nostri giorni, ma anche quel dualismo che rende le persone care un'àncora a cui stringersi sempre di più nei momenti difficili. Con questo nuovo album, "Dedicato a noi", Ligabue crea una legame ancora più forte tra ciò che è oggi e ciò che era 30 anni fa, con le storie e i personaggi che gli hanno regalato la popolarità che tornano a mostrarsi, come avviene, per esempio, in "Così come sei", in cui ritroviamo i protagonisti di "Salviamoci la pelle", quei personaggi che sono traslati nell'oggi in "Stanotte più che mai", mentre Dio torna in "Chissà se dio si sente solo". C'è un Liga più privato, che racconta il rapporto d'amore con la moglie Barbara Pozzo, che riflette sul tempo che passa, il sesso adulto, ma c'è anche un Liga più politico, c'è un afflato sociale con un occhio particolare rivolto ai più giovani, senza mai scadere nel paternalismo. Insomma, Ligabue – che parte con un tour nei Palazzetti dal 9 ottobre – torna confermando quello che lo ha reso uno dei cantautori più amati in Italia, e in quest'intervista oltre a parlare dell'album, riflette sulla fama, sul concetto di normale, chiede scusa ai fan, nega l'idea di essere il cliché del rocker e racconta di quando le montagne russe della fama lo stavano portando a mollare tutto.

Chi sono il noi del titolo?

È un noi non molto delineato, i cui confini non sono così netti, è come se denunciasse un po' un mio bisogno di appartenenza. Io continuo a pensare che il punto di vista sulle cose, sul mondo, su ogni aspetto di ognuno di noi è assolutamente unico, frutto di tutto quello che ti ha formato. Un punto di vista che cambia nel tempo, perché poi nel frattempo cambiano le esperienze di cui si alimenta, ma nonostante questo, pensando che comunque quel tipo di differenza individuale sia una risorsa, ho sempre avuto questo bisogno di sapere, di poter condividere una serie di valori, di principi, di convenzioni e di dubbi. È un noi che mi sembra un po' figlio del primo noi che ho usato.

Quello di Non è tempo per noi?

Sì, solo che mentre quella volta il tempo per noi era piuttosto amaro: "Non è tempo per noi, o forse non lo sarà mai", adesso, invece, nella mia testa il noi si sovrappone un po' all'immagine di chi ho davanti ai concerti. È un noi verso cui c'è una chiarezza maggiore, come sempre: "Dedicato a noi", come se in qualche modo meritassimo qualche cosa, magari anche semplicemente il sentire di stare dalla stessa parte.

Mi sembra anche una sorta di manifesto contro l'individualismo di questi tempi, a cui rispondi col bisogno di comunità.

Ho fatto in tempo a vedere sei inizi di decenni, nessuno è mai stato terribile come quello in cui siamo ancora dentro: la pandemia, la guerra nel nostro stesso continente, le catastrofi sempre peggiori che derivano dal cambiamento climatico, la cronaca nera sempre più terribile, con un tasso di femminicidi intollerabile, la sensazione di arretratezza culturale che va di pari passo, il fatto che sempre più psicologi ci stanno dicendo che la Generazione Z non ha un'idea di futuro, che è un pensiero terribile, non pensano di avere un futuro. Tutto questo, secondo me, non può non produrre un forte disagio sociale e questo per forza non può che produrre isolamento, dall'isolamento nasce la paura, la paura rende ancora più soli, quindi è un po' anche l'invito a una speranza che un noi è ancora possibile.

Le prime tre canzoni sono canzoni in cui quel "noi" è un due…

L'ordine è casuale, non era intenzionale partire da quello: la prima canzone racconta di due ragazzi che trent'anni fa, in un pezzo che si chiama "Salviamoci la pelle", scappavano da famiglie disfunzionali e da un destino che ci sembrava fin troppo scritto e trent'anni dopo ho avuto voglia di vedere come stanno e devo dire che li ritrovate molto bene. "La parola amore" è una canzone che parla di un reincontro, di una relazione passata che evidentemente deve essere stata importante per entrambi, mentre "La metà della Mela" è una canzone che parla della storia fra me e mia moglie, di quello che si affronta anche insieme quando si scommette sulla relazione, si scommette sul voler stare insieme. Al di là del fatto che queste tre canzoni aprano un album e quindi che il contenuto parta da noi in due e per due, è evidente che una delle risposte che mi sono dato per rispondere allo spiazzamento generale in cui anch'io mi sono ritrovato è stringermi ancora di più a chi mi è più vicino, so che tante volte si comincia anche da lì, dal rapporto a due.

In Così come sei affronti non solo l'avanzare del tempo, ovviamente, ma anche l'effetto che ha sul corpo.

Avendoli trovati bene, mi piaceva vederli ancora prendere una moto, andare su una collina dove ancora una volta fare l'amore dominando un po' sulla città e che lei comunque facesse i conti con l'avanzamento del tempo sul suo corpo, se ne vergognasse un po' e che fosse lui a dire "No, non azzardarsi neanche col pensiero a coprire le due grinze". Mi piaceva questo aspetto tenero, che è comprensibilissimo visto che tutti dobbiamo fare i conti con l'avanzamento del tempo sui nostri corpi, però è proprio quando hai a fianco qualcuno che riesce a non fartici pesare più di tanto che hai pescato il tuo jolly. Questa canzone fa un po' il paio con una canzone che è quasi alla fine dell'album, "Stanotte più che mai", in cui invece ho voluto vedere come sono due diciottenni oggi, la cui adolescenza, quindi il periodo più formativo di tutte le nostre esistenze, è stata segnata dalla pandemia. Fragilità e insicurezze riescono a essere vinte da qualcosa che ha quasi a che fare con la magia: è un primo incontro che avviene in un centro commerciale e il corpo di lei, in questo caso, è segnato volontariamente da tagli di cui non di cui lui non vuole sapere le cause, lei capisce che lui vuole rispettare questo aspetto e lo abbraccia come un figlio, dice per l'appunto la canzone.

È una Salviamoci la pelle contemporanea?

Esattamente, di oggi.

E tu che rapporto hai con l'avanzamento del tempo?

Beh, insomma, è un po' una rottura di maroni, nel senso che man mano che vai avanti devi fare i conti anche con lo scricchiolare di alcune parti del tuo corpo. Ho sempre avuto un rapporto pratico con il mio corpo, è quello che è, fa quello che fa, mi dà quello che mi deve dare, quindi siamo andati sempre d'accordo, anche adesso è un po' così, non mi accorgo giorno per giorno del problema, ma me ne accorgo ogni tanto, tutto in una volta.

Che rapporto vivi col culto che hanno i fan nei tuoi confronti?

Sono lusingato dal fatto che per qualcuno possa essere importante il mio lavoro e magari che possa anche arrivare un po' a idealizzarlo, andare oltre a quello che c'è veramente. Ogni artista è egocentrico, quindi è gratificato dall'approvazione altrui. Per quanto riguarda il rapporto coi fan che vengono a trovarmi mi dispiace un po' che per motivi legati a come sono fatto io, alla mia timidezza cronica, esprimo poco le mie emozioni con il volto, quindi questa cosa li allontana un po', li metto un po' in soggezione, così quando li ho davanti faticano a dirmi quello che mi vogliono dirmi, faticano a chiedermi quello che vorrebbero chiedermi e alla fine si accontentano della foto. Questo un po' mi dispiace.

Ovviamente è un album politico in cui però non hai paura di dirti spaesato, penso a Musica e parole, dove cerchi di capire ma non sempre ci riesci. Non ci sono solo certezze, insomma.

È così, sono spaesato, i cambiamenti sociali, dettati anche dalla tecnologia, mi vedono poco partecipe. C'è una frase in "Dedicata a noi" che dice "E non abbiamo per forza un commento", sai, io non ho mai commentato niente in rete, mai, perché credo che a ognuno spetti un po' di farlo sia con i fatti che con le sue parole nel proprio lavoro. Io ho sempre sperato che bastassero le parole che metto nei miei lavori per far capire un po' come vedo le cose in quel momento, ho sempre pensato che il commentificio social sia uno dei problemi che abbiamo, perché comunque se senti il bisogno di commentare una roba di cui non sai niente o sai pochissimo e lo fai anche in maniera virulenta anche l'essere degli hater in rete diventa qualcosa che per te non vale così tanto, mentre per chi lo riceve vale molto.

Vedi questa cosa come un fallimento di quel noi?

Ho avuto la mia adolescenza negli anni '70, quindi ho avuto la netta convinzione che insieme avremmo potuto fare in modo che il mondo fosse un po' più giusto e che soprattutto la forbice fra il primo e l'ultimo fosse molto più stretta, in modo che soprattutto ci fosse sempre una chance, una possibilità per l'ultimo. Non posso che vedere che il mondo è andato in una direzione opposta, la forbice non è mai stata così ampia, si alza la diffidenza verso l'ultimo, si alza la diffidenza verso la differenza.

Quindi sei obbligato a scrivere "Niente piano B".

Esatto, sono obbligato a scrivere anche "Niente piano B".

"Niente piano B" è una canzone in cui prendi posizioni politiche importanti: quant'è importante che chi ha un megafono, come te, possa impegnarsi?

Credo che sia importante, se hai la possibilità di avere una voce, di farla sentire, ma credo che tu debba avere il controllo su questa cosa e per avere il controllo devi pensarci bene prima di metterla in giro. È per quello che lo faccio attraverso il mio lavoro, è per quello che l'ho sempre fatto così, ma l'ho fatto anche quando i social non esistevano. Dopodiché è chiaro ed evidente che esprimere un'opinione di qualunque tipo vuol dire immediatamente esporsi a una serie di commenti di cui una buona parte di attacco, quindi in qualche modo è come perdere tempo, far perdere tempo e soprattutto fare in modo che questa cosa resti a un livello superficiale, e questo che non aiuta. Da questo punto di vista resto un uomo dei primi dieci anni del 2000.

L'altro giorno parlavo di questa intervista con un amico che ti definiva, con un'accezione positiva, un "rocker normale". Ti senti un rocker normale?

Non sono sicuro di sentirmi rocker, io non mi sono mai autodefinito e mi sono beccato le definizioni che arrivavano, qualunque esse fossero. Mi hanno messo nella casella rock evidentemente perché hanno sentito alcune cose nella musica che mi includevano in quella categoria, anche se io non ho il problema di autodefinirmi rocker, soprattutto perché so che questa cosa ti mette già con un costume addosso, probabilmente di pelle, sapendo che devi vivere sopra le righe, devi attenerti un po' a un copione, insomma, e sono tutte delimitazioni che non amo e che non mi appartengono. Quindi se uno vede il rocker così, ecco, allora chiamatemi pure musicista di liscio va benissimo.

E ti senti normale?

È un aggettivo forte, nel senso che, applicato alla parola rocker, sarebbe contraddittorio: "Rocker normale". Vorrebbe dire che dovrei avere tutte quelle caratteristiche, se fossi un rocker normale, invece a questo punto sarei un rocker anomalo se stiamo al galateo del rocker. Se stiamo ai dettami della mia esistenza, invece, devo dire che la cosa strana è che io credo di avere l'inquietudine del rocker e quella non so da dove venga, perché, a differenza di molti di quelli che hanno raccontato le vite che li hanno portati a essere lì, a fare quel tipo di musica, io non ho avuto una famiglia disfunzionale, anzi ho avuto due genitori fantastici che, nonostante non avessero finito le elementare, mi hanno trasmesso valori culturali, sentimentali e valori in generale, di cui sarò sempre grato.

Quindi, secondo te, da cosa deriva questa inquietudine?

Forse deriva da un'idealizzazione di quello che potremmo essere, che dovremmo essere. Io credo che sia un po' quello il centro del mio disturbo. Sono contento della mia inquietudine, è il motore che mi spinge a scrivere, è sempre stato così.

Hai raccontato che un giorno, al concerto dei Waterboys a Glasgow, eri tra il pubblico e nessuno ti conosceva. Esiste questo tipo di normalità nella tua vita?

Esiste una normalità che mi sono creato, è una normalità che deve fare i conti col fatto che una sera sei su un palco e hai di fronte uno spettacolo difficile da raccontare, di gente che si emoziona al punto tale per quello che hai fatto al punto, talvolta, da trasfigurarsi mentre ti cantano in faccia la loro voglia di dirti come sentono quella canzone, che ti fa la festa e poi la mattina dopo è tutto spento. Quel salto continua a essere difficile, però è ovvio che ci fai un po' il callo nel tempo, resta il fatto che non vedo l'ora che arrivi il momento di riprendere i Palasport. Dopodiché penso anche che sia molto difficile essere normali per chiunque, siamo esseri talmente complessi, composti di così tante parti, di così tante identità che è molto difficile essere normali, ma forse non è neanche così indispensabile.

È il primo album in cui tuo figlio suona la batteria in tutte le canzoni, giusto?

È al primo album e sono un padre orgoglioso perché non è stata una scelta mia. Per questo album lavorato con Fabrizio Barbacci – che è il produttore di Buon compleanno Elvis, Fuori come va e altri album importanti della mia storia – il quale è un notorio rompicoglioni per le batterie, quindi molto pignolo nella scelta, ed è stato lui che dopo averlo sentito suonare ha detto "Sarà perfetto per questo disco", per cui ho veramente goduto di questa esperienza, soprattutto perché quando fai musica è come se potessimo approfittare di un altro linguaggio che va oltre le parole, quindi ci siamo comunicati altre cose io e mio figlio. Questo è l'album su cui sono stato più tempo di tutta le mie storie, quindi io e Lenny abbiamo passato tantissimo tempo insieme in studio e in parecchio di quel tempo io continuavo a blaterare sulle intenzioni delle canzoni o su quello che intendevo comunicare, su molti degli aspetti, anche artistici, legati a quello che avevo fatto nel passato, per avere dei rimandi, dei richiami, quindi credo che lui mi abbia conosciuto come non mai grazie a queste esperienze, quindi più di così non so cosa poter chiedere.

“Non dovete badare al cantante, tutta gente che viene e che va”. Nella tua carriera ti sei trovato più volte a riflettere sulla condizione dell'artista osservato dall’esterno, quasi mettendo in conto una caduta che nel tuo caso non c’è mai stata. Era un modo per esorcizzare un esito di questo tipo?

C'erano diverse cose in quella canzone: nella prima c'era anche un po' una voglia di togliermi di dosso un po' di responsabilità, come a dire "Datemi retta, ma neanche più di tanto, in fondo sono canzoni, non sono pietra scolpite nella roccia del sapere umano", dall'altra c'era anche la considerazione che il pensiero della gente è anche legato alle montagne russe che viviamo, di una carriera fatta anche di bruschi stop.

Tu hai cominciato la carriera a 30 anni questa cosa ti ha aiutato ad affrontare meglio le cadute e le risalite di cui mi parlavi? E soprattutto: quali sono le cadute di Ligabue?

Nel '99 ho quasi deciso di ritirarmi, perché quando mi è arrivato il successo in una forma e in una sostanza che non pensavo di poter mai vivere in vita mia ho visto l'altro lato della medaglia, ovvero il tipo di isolamento che crea, il fatto che non riesci a parlare con una persona, ma parli sempre con l'idea che la persona si fa di te. Per il resto di sicuro non mi posso lamentare, inoltre mi suonava la campanella in testa che diceva "Ok, ritirati pure, quindi non farai più concerti" e quella è sempre stata la sentenza che mi ha sempre fregato, non mi ha permesso di avere scelta.

Hai deciso di continuare, però quella cosa la devi affrontare sempre…

Si fa l'abitudine a una serie di cose, sono anche abbastanza convinto che in quel momento ci fosse una componente paranoica che nel tempo, fortunatamente, un po' si è spenta.

Ci sono alcuni legami con i tuoi primi album, penso anche al dio a cui ti rivolgevi e che torna anche qua in “Chissà se dio si sente solo”. È un rapporto tormentato?

È un rapporto che non finisce, è un rapporto di avvicinamento e allontanamento. Io non sono più cattolico praticante, lo sono stato e penso che non si smetta mai di esserlo del tutto, però sono credente, credo nel fatto che non sia tutto qua, quindi ho un bisogno spirituale molto forte. Questa riflessione parte ancora una volta da come siamo messi: le strofe della canzone sono un elenco di paure che spesso sono una opposta alle altre e sono vissute entrambe: paura di essere come gli altri e paura di non essere come gli altri; paura di essere visti, paura di non essere visti mai; paura che Dio ci sia, paura che Dio non esista. A volte si vivono tutte e due le paure, e il fatto che si abbiano più paura, in generale, dipende ancora dal senso di solitudine in cui siamo finiti, dalla società in cui viviamo, dal contesto che ci si è formato attorno. E io penso che se torniamo all'iconografia di un essere superiore che ci sta guardando, non stiamo offrendo un grande spettacolo di noi ed è per quello che dico "Chissà se Dio si sente solo, se gli bastiamo o se gli manchiamo". Dopodiché noi abbiamo qualche attenuante e l'attenuante è sempre quella delle condizioni in cui ci troviamo, però se le condizioni dicono che non c'è un piano B siamo costretti ad essere noi il piano B.

A proposito del palco sostieni che salire sul palco ti cambi: in che modo è cambiato l'effetto del palco, col tempo?

Non è che il palco mi trasforma, è che tira fuori una parte di me che trasmette un senso di sicurezza di sé, trasmette un senso di confidenza non solo nei propri mezzi, ma in quello che stai dicendo, che giù dal palco hai molto meno. Comunque c'è, mi fa star bene e ho trovato un mio equilibrio, quindi proseguo.

Esiste ancora la paura del vuoto, del fatto che potrebbe non esserci gente sotto a quel palco?

Se fai musica e se fai musica mainstream, se hai deciso di fare o sei capitato a fare un mestiere che si basa sull'approvazione altrui. Se l'altrui non si mostra è il segno peggiore di approvazione che ti possa dare, quindi è chiaro che sì, può far paura.

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