L’elemento di Bresh è l’Oro Blu: “Vorrei rinascere Che Guevara, vincendo per gli altri”
Se non l'aveste capito, il cantautorato di Genova ha formato la nuova scuola rap-pop italiana: da Tedua a Rkomi, fino a Bresh. Le luci della ribalta si sono accese in un secondo momento per lui, ma la sua penna ha fatto parlare anche più della sua voce, con la stampa che lo ha inizialmente catalogato come cantautorapper, un riferimento diretto alla sua città di provenienza e al suo patrimonio artistico del ‘900. Dopo il successo pre-pandemico di "Che Dio m'aiuti", lo scorso 4 marzo ha pubblicato "Oro Blu", 12 tracce con la direzione musicale di SHUNE e Dibla. All'interno un viaggio emotivo, con le collaborazioni di Rkomi, Izi, Psicologi, Tony Effe e Massimo Pericolo, ma anche Francesca Michielin e la firma di due produttori come Greg Willen e Crookers. Un disco anticipato dal successo di "Angelina Jolie" da 43 milioni di stream su Spotify, ma lui "non vuole essere presentato come un ragazzetto che parla di donne". Dalle sue idee politiche all'essenzialità del lavoro dell'informazione pubblica, passando per Ulisse, il senso di appartenenza e Genova, ecco l'intervista a Bresh.
Ti ha pesato o ti ha reso felice l’idea di arrivare alla pubblicazione di “Oro Blu”, con un singolo come Angelina Jolie che aveva 43 milioni di stream su Spotify?
Ci ho pensato, ma alla fine ho deciso di lasciarmi scivolare addosso tutto: "Angelina Jolie" è semplicemente un pezzo. Una hit la possono fare bene o male tutti, quindi sono andato tranquillo per la mia strada.
Nell’intervista a Rolling Stone hai detto che non volevi presentarti come un ragazzetto che parla di donne con quel singolo. Come vorresti essere fotografato dal pubblico?
Una domanda troppo psicanalitica. È una roba che coinvolge chi sono e cosa sto diventando e ci sono troppe variabili che possono cambiare dalla sera alla mattina. Sicuramente qualcuno che non mi farà sentire solo, una persona che racconta una scena della sua vita ma in cui tu ti riesci a rispecchiare.
Cosa significa la parola appartenenza per te e come Genova ti ha permesso di arrivare a questa autodefinizione?
L'appartenenza è una parola molto importante, dovrebbe essere messa nella sezione necessità vitali. Tutti noi ricerchiamo un senso di appartenenza, chi con le passioni, chi con una squadra di calcio o una città, o un quartiere in cui si vive. È una parola che deve essere già stata studiata da qualche psicologo, da qualche psicanalista. Ci rende parte di un contesto, capiamo sempre di più chi siamo e cosa ricerchiamo.
In Parli di me c’è il riferimento giornalistico con “Non sei un giornalista, non sei un giornale…”. Non ti chiedo a chi ti riferisci, ma cosa vuol dire ricostruire la realtà in un album come il tuo e cercarla di proporla a un pubblico senza intermediazioni?
C'è sempre un tipo di intermediazione, ma bene o male la musica è emozione. La musica, come arte, non ha pretese di lucro, non ha interessi nella sua creazione.
Oro Blu è un progetto a quattro mani con Shune, un rapporto che ormai è diventato il fulcro del vostro lavoro: com’è cambiato il vostro rapporto negli anni e anche il modo di lavorare rispetto a “Che dio m’aiuti”?
Tutto sempre fluido. Noi siamo persone diverse ma che condividono una passione comune. Nonostante siamo persone molto diverse, il fatto che abbiamo trovato in entrambi la sinergia giusta per uscire anche dai nostri canoni musicali, è stata una cosa molto bella.
Come sei arrivato al titolo Oro Blu e cosa rappresenta?
Il titolo arriva dal 2020 quando è stata quotata l'acqua in borsa, diventando "l'oro blu", una metafora che era stata utilizzata anche per il petrolio, come "l'oro nero". Volevo fotografare questo momento, in cui anche il necessario aveva un prezzo, e poi scendere nell'intimità personale, nella voglia di riscoprirsi. Sia una parte sociale di cronaca, sia una parte interiore che si uniscono. Poi l'oro blu rappresenta l'acqua, che è sicuramente il mio elemento.
Per te è impossibile riavvicinare la politica e i suoi temi al rap, soprattutto in questo momento storico?
Riuscire a trovare una militanza?
Qualcosa che parta dal contesto musicale ma si estenda a macchia d'olio sui temi fondamentali dell'attualità: un esempio su tutti, Kendrick Lamar e il BLM.
Una bella domandona socio-politica. Dipende tanto dai media e dal modo in cui potrebbero supportare una scelta del genere da parte di un artista, e poi quanta voglia abbiano le etichette di spingere qualcosa di più impegnativo. Si parte dal concetto che la massa si muove attraverso sentimenti di contrasto sociale, ma se non c'è qualcuno che la appoggia e che la imbocca, non si muove. Una questione molto difficile, ma è una mia missione personale riuscire a trovare un connubio tra il diversivo, che è la melodia, e un messaggio sociale, che faccia riflettere.
Una sfida ardua.
È una lotta contro il potere, contro la direzione dei media in Italia.
Qualcosa in cui rientra anche il mondo dell'informazione, quindi…
Io vengo da un mondo, come quello del tifo, in cui c'è sempre un rapporto conflittuale con il mondo dell'informazione, soprattutto legato al mondo della violenza sugli spalti. Non credo che la lotta contro il potere, quindi contro un certo tipo di informazione, sia sbagliata, soprattutto se i fatti vengono travisati o romanzati. E se questo succede allo stadio, figuriamoci se può accadere nel racconto dei grandi temi nazionali e internazionali.
Come pensi si possa evitare questa cosa?
Parte tutto dalla domanda: "Chi controlla il controllore?". Il giornalismo è un organo di fondamentale importanza, come a esempio quello del servizio pubblico, la Rai. Un'azienda che invece di prendere soldi da organizzazioni esterne, viene finanziata dai contribuenti pubblici, quindi ha una libertà espressiva maggiore.
Che ruolo a questo punto dovrebbe avere il giornalismo?
È colui che controlla la politica, che controlla i potenti. Per esempio aprirei una scuola di giornalismo, un'accademia in cui si fa giornalismo libero. Aprirei un fondo così da far sentire i giornalisti liberi di raccontare la verità. Un lavoro che sicuramente deve essere controllato, perché non puoi scrivere cazzate.
Ulisse e l’epopea del viaggio sembrano parlare di un’epoca precedente a questa: cosa ha significato per te l’immobilismo dovuto al Covid e come ti ha influenzato, sia nella scrittura che nella sfera personale, questa impossibilità?
Ulisse è un viaggio astratto, è un breviario della mia vita. Mi ha insegnato che quando il percorso si fa buio e tortuoso, tornare indietro per riprendere delle metaforiche provviste, ovvero riguardare ciò che si è e ciò che si vuol fare, è fondamentale. Racconta del mio trasferimento, da Genova a Milano: rappresenta la narrazione di un turismo esperienziale.
Se dovessi rinascere in un personaggio storico, chi sceglieresti di essere?
È una domanda militante questa (ride n.d.r). La mia parte sognante ti direbbe Leonardo Da Vinci, invece la mia parte rivoluzionaria ti direbbe il Che o Zapata. Una persona che ha sofferto e vinto per gli altri, mica uno che ha vinto per sé stesso.