L’altra faccia di Tiziano Ferro: “Da ragazzo non mi voleva nessuno, ora do del tu ai miei miti”
Doveva essere un'intervista sul suo nuovo album di cover, "Accetto Miracoli: l'esperienza degli altri" in cui Tiziano Ferro reinterpreta le canzoni di alcuni dei suoi miti, ma la conversazione ha preso varie tangenti, passando dalle critiche negative dei giornalisti e passando per Sandra Milo, "farneticare", il passato nascosto da giornalista, le dipendenze, la fama, la maturità artistica, Mara Venier e il bisogno di ascoltare, soprattutto se sei Tiziano Ferro. Chi ama Ferro sa che una delle sue caratteristiche è regalare qualche cover dalla cameretta durante le feste, così come sa quanto alcuni artisti e alcune artiste siano stat* fondamentali per la sua crescita artistica. Un album di cover spesso è solo un album di cover, ma Tiziano Ferro ci ha spiegato che a volte bisogna andare un po' al di là della pigrizia mentale che ci prende quando sentiamo la parola "cover", ribaltando l'idea che le canzoni simbolo e i cantanti e che i miti non si debbano toccare. da qui nasce quest'album che è il repack dell'ultimo album del cantante, in cui Ferro si cimenta con Franco Battiato, Riccardo Cocciante, Mia Martini, Massimo Ranieri, Giuni Russo, tra gli altri. L'11 dicembre, poi, è anche uscito "Casa Natale", inedito incluso nell'album e a sostegno di Telefono Amico Italia.
Tiziano, in che modo la musica e le canzoni ti hanno cambiato la vita?
È una cosa importante, secondo me, celebrare i propri maestri, pensa a chi è andato al conservatorio, pensa a tantissimi anni fa, quando la musica veniva scritta poi se non c'erano dei musicisti a tener vivi questi scrittori di musica, la musica moriva. Insomma, tutti quelli che sono andati al Conservatorio, tutti i grandi musicisti che sono diventati anche direttori d'orchestra, se non avessero avuto questi grandi autori che li hanno ispirati e sono diventati anche il centro del loro mestiere non sarebbero sopravvissuti. Poi è arrivato il disco e il disco ha istituito il collegamento canzone-cantante, e sembra quasi un reato toccare una determinata canzone non tua, ma la musica non è nata così. Prima si scriveva un libretto e per tener vivo l'amore e la bellezza di queste arie bisognava riprodurle: per questo il mio atteggiamento è stato quello, quello di tributo verso maestri che hanno scritto opere bellissime senza le quali non avrei trovato l'ispirazione come autore e come cantante e che ho trattato come se fossero di Mozart, da studente del Conservatorio celebrandoli e facendone la mia versione senza alcuna presunzione di confronto verso gli autori e gli interpreti originari. È un atteggiamento molto italiano quello dei mostri sacri che non si toccano, invece penso sia utile, giusto, quasi un obbligo morale, se fai questo mestiere, celebrare chi ha veramente cambiato in te la percezione del mondo tramite la canzone.
Qual è il segreto di una cover convincente, secondo te?
Io ho ascoltato molte volte mie canzoni cantate da altri artisti, succede spesso nei programmi tv, nei talent, a volte va bene, a volte va male, ma non è che va bene o male perché uno è bravo e l'altro no, ma percepisci quando la canzone è stata utilizzata, strumentalizzata per una gara, buttata lì e quando, al contrario, qualcuno la canta perché ti ammira. Io la percepisco questa cosa e credo che la differenza stia lì, quando tu metti in atto un pensiero d'amore e d'affetto verso qualcuno che veramente ami, a prescindere da come la canterai questa cosa la percepisci.
È quello che serve anche per convincere artisti e/o famiglie, tipo?
Certo. Con Mango, per esempio, è successo: ho sentito Laura Valente, ho incrociato nei social Angelina, che tra l'altro ha fatto un Ep veramente molto interessante – c'è una canzone molto bella che si chiama "Naviglio grande" che vi consiglio – ed è stato importante, è fondamentale sentire il supporto delle famiglie e quello degli autori, che hanno capito che quello che ho fatto è un gesto di passione personale.
Un pentimento?
"Je so pazzo" di Pino Daniele. Registrai una versione jazz, piano e voce, ma pensai che il mio napoletano non fosse all'altezza, quindi non l'ho registrata, ma la postai su Instagram. Sara Daniele, la figlia di Pino, mi scrisse delle cose molto belle e tutti i commenti dei napoletani erano tipo: ‘Oh ma sei nato a Napoli e non lo sai" e mi sono detto "Cazzo!". Vedi, la mia insicurezza mi ha portato a non metterla nel disco e invece avrei dovuto, perché tutti hanno percepito anche nell'imperfezione della pronuncia la voglia di fare una cosa bella per un artista che amavo. Quello è stato l'unico pentimento che porto dentro: la mia insicurezza mi ha bloccato.
Recupererai Pino Daniele in qualche modo?
Nel secondo volume de "L'esperienza degli altri" Pino ci sarà, forse non con quella canzone, ma con altre, vediamo.
Una cosa è cantare un album tuo, un altro è affrontare 13 brani diversissimi tra loro, ricantarli, trovare il modo di farlo, riarrangiarle etc. Già la cover di per sé è complessa, in questo modo hai comunque facilitato la critica. È molto più facile criticare una cover: dico questo solo per chiederti qual è oggi il tuo rapporto con la critica negativa.
Guarda, sono molto sereno, faccio questo mestiere da 20 anni, mi sarei rinchiuso in un ospedale psichiatrico se non avessi avuto una buona relazione con le critiche, anche se credo che ci siano tantissimi modi di scrivere critica. Il senso critico e la libertà di parola io li apprezzo, sono una persona con una sviluppata intelligenza emotiva – sì, me lo dico da solo -, sono razionale ma sono anche uno di pancia e la mia razionalità mi spinge a comprendere che quello che faccio può non piacere e va benissimo: ho ricevuto critiche da grandissimi illustri critici con cui sono rimasto ancora amico. Cioè, non è che ho smesso di parlare con loro perché hanno criticato le cose che faccio, lo hanno fatto esprimendo un parere, argomentando, poi si chiude la giornata concordando che siamo in disaccordo e va bene così, succede con gli amici, con mia madre e con i critici.
Sento che c'è un però…
Sì, perché questa è una cosa, ma la sottile linea esacerbata dai social, dell'hater col patentino da giornalista, non lo sopporto: da una parte ci vedo il bisogno di spiccare in un mondo in cui scrivere non è facile e quindi attirare attenzione tramite l'attacco a tutti i costi, farlo per distruggere e questo lo trovo abbastanza triste. C'ho anche un moto di stima per chi fa questa cosa, in realtà, perché bisogna sopravvivere e ci sono dei giornalisti che hanno capito che inseguire questa carriera da hater era l'unica soluzione per distinguersi: ammiro il loro senso di sopravvivenza, ma non sono disposto a mediare con persone che scelgono un strada a tutti i costi, perché alcune cose sono strumentali e fini alla diffusione di odio. Anche perché poi noto che queste persone perdono la capacità di scrivere bene, nella ricerca della distruzione a tutti i costi si finisce in quella zona un po' occlusa della mente per cui quando questi giornalisti provano a scrivere qualcosa di bello non ci riescono per paura di sembrare melensi, troppo a favore di. Però la critica in quanto tale ci sta.
Tornando alle canzoni, qual è stata quella che non poteva mancare?
La canzone che doveva esserci e non è stata oggetto di alcun tipo di selezione e filtro è "Margherita" di Cocciante, perché quella è la canzone, è un tatuaggio, quella canzone che è entrata nella mia vita e ha trovato diverse posizioni importanti, quindi se fai un disco con le cover Margherita ci deve stare. Il problema di una canzone che ci deve stare, senza averla mai provata e arrangiata, però è che inizi a sentire un po' la pressione, quindi l'ho lasciata per ultima, vittima di una serie di paranoie che poi si sono rivelate inutili. Pensa che ho cantato con la band in diretta e abbiamo tenuto la prima versione, perché la spontaneità dell'interpretazione ha superato ogni sovrastruttura. Chiaro che da parte mia c'era la voglia di proteggere una cosa a cui tengo molto.
E Cocciante che ha detto?
[Ride] Ma non lo so! Non ho feedback di Cocciante. Lui è sicuramente uno dei miei dei, per me è come se fosse il mio San Gennaro in musica ma in 20 anni di carriera non l'ho mai incontrato. Non posso credere di non aver mai avuto la possibilità neanche di salutarlo un artista che amo così tanto, non l'ho mai incontrato e anche adesso non ho avuto contatti. Riccardo, materializzati.
Sai, uno pensa che essere Tiziano Ferro permetta di alzare il telefono e chiamare…
Ma non so chi chiamare. Devo dirti che non ho avuto un feedback, non so neanche perché. Anche Califano è uno di quelli che non ho mai incontrato purtroppo, anche perché in una delle sue ultime interviste parlò molto bene di me e ho ancora il trafiletto di quel giornale in cui mi definì "gajardo". Mi intenerì molto quel messaggio, poi da lì a poco morì e la sua scomparsa mi ha lasciato senza parole: peccato, perché per me Califano era un vero rapper, uno di quelli che raccontava la vita di provincia, dell'emarginato, del donnaiolo sempre un po' innamorato. Faceva tutto quello che i rapper dicono di fare ma non so se poi fanno.
Non è un caso che Ketama ha ripreso un inedito suo dicendo quello che hai detto tu.
Vero, non aveva bisogno di tatuaggio perché la sua vita e le sue canzoni erano molto più scioccanti.
E feedback in generale?
Ne ho avuti di bellissimi, proprio poco fa mi ha scritto Maria Antonietta Sisini, una delle autrici di "Morirò d'amore" di Giuni Russo, donna che nella sua vita è stata essenziale e mi ha scritto un messaggio meraviglioso, accogliendo lo spirito d'amore che ho messo nell'interpretazione, anche se chiaramente Giuni era una soprano: trasportare quella canzone in un uomo è una sconfitta in partenza. Credi che mi sia illuso di poter cantare come lei? Ma chiaro che no, ho fatto quello che potevo fare da uomo.
Però è bello, lei ha una storia e una percezione molto particolare, non è Mia Martini, una cantante divenuta simbolo, ma è un'artista comunque di culto e riportarla in un album tuo è un gesto importante.
Sì, per me riportarla era una missione, e farlo non con i grandi successi che sono stati megagalattici, da "Alghero" a "Un'estate al mare", poi c'era quella bellissima, "Adrenalina" con Donatella Rettore che mi fa impazzire, ma ricordarla con un brano bellissimo che non ha avuto il successo che meritava.
La condivisione con gli altri (musica, alcol, famiglia, artisti di cui ha fatto cover) come cura: me ne parli?
Credo che uno dei problemi per i quali moltissimi artisti siano morti di dipendenze, alcol, droga, è perché la dipendenza è come una storia d'amore epica con te stesso, a un certo punto il mondo intorno a te ti chiede sempre di parlare di te stesso e tu ci caschi, un po' sei sfinito e un po' non ti pare vero, un po' ti nascondi, un po' ti celebri e alla fine ti chiudi in queste dipendenze perché la confusione è troppa e tenti di alterare la percezione del mondo, perché il mondo è strano. Invece è strano quanto sia semplice la soluzione, che non è altro che smettere di vivere questa esperienza epica con se stessi e ascoltare: condividere e ascoltare è anche uno degli strumenti base dei gruppi di recupero, nel momento stesso in cui tu esci dalla dipendenza fisica la prima cosa che fai è aiutare gli altri. È vero, quindi, che aiuti gli altri, ma lo fai per te, perché non devi ricadere in quello stato di dipendenza da te stesso. È così semplice, però raramente lo facciamo, invece quando passi dal monologo perenne ad ascoltatore già ti metti in una posizione di soluzione.
E invece come è cambiata l'idea di successo nelle varie fasi della tua carriera artistica?
Guarda, spinto dall'idea che il mio aspetto fisico non mi avrebbe mai permesso di fare l'artista puntavo molto sulla scrittura delle canzoni, quindi ho firmato un contratto editoriale d'autore molto prima di aver firmato un contratto da artista. Io, appena 18enne, firmo questo contratto editoriale per scrivere canzoni che i miei editori proponevano a diversi artisti che non li pigliavano, ma questo è un altro discorso.
Sai come si saranno pentiti col senno di poi?
Mah, li ho rincontrati e non mi sono sembrati così pentiti, ma chi se ne frega. In ogni caso mi piaceva questa idea, non lottavo con l'idea di rimanere dietro le quinte anzi mi eccitava questa cosa, mi piaceva e avevo anche un po' abbandonato l'idea di fare il cantante, dopodiché qualcosa è successo, una storia che ho già raccontato: un discografico, che adesso è anche il mio manager, Fabrizio Giannini, era stufo di ascoltare le voci che giravano in discografia di questo ragazzo che veniva proposto a tutti e rifiutato perché faceva musica troppo R&B, troppo strana, fuori moda, e che per di più fisicamente non andava bene. Così disse: "L'avete portato a tutti ‘sto ragazzo, perché non l'avete portato a me? Fatemelo sentire, tutti i discografici dicono che avete rotto le palle con questo Tiziano Ferro e io non l'ho mai ascoltato".Quindi i miei produttori gli fecero ascoltare la demo, lui saltò dalla sedia e disse: "Voi siete matti, io lo firmo domani", ed è per caso che sono diventato cantante. Se lui non avesse fatto quella domanda ai miei discografici sarei rimasto autore. Quindi ero abbastanza sereno su questa cosa del successo, io sono diventato famoso come conseguenza del bisogno di scrivere canzoni.
E oggi?
Oggi si punta alla fama per poi provare a fare quello che si vuole, si parte dall'esposizione – e non parlo sono dei talent, ma parlo anche di Youtube, dei social -, a volte si ha successo prima di avere un repertorio. Io, quando mi firmarono un contratto, avevo 20 canzoni una più forte dell'altro, "Xdono", "Imbranato", "Rosso relativo", insomma ho fatto il contrario di quello che succede adesso, sono arrivato alla fama come sintomo di una cosa che dentro di me aveva un'altra forma, che era l'esigenza di fare musica. A un certo punto la fama è diventata anche troppo per me, non era quello a cui puntavo, io puntavo a fare della musica il mio mestiere. Per questo nel documentario dico che la fama a un certo punto mi sembrava anche un po' un difetto, perché ho avuto molto di più di quello che volevo. Bisogna stare un po' attenti.
E quando ti sei sentito veramente adulto, artisticamente, per il successo che avevi e la vita che hai fatto?
Tu mi stai domandando l'impossibile, è come se mi stessi costringendo a dire che adesso sono pronto, cosa che non posso dichiarare, perché non è assolutamente così. La mia insegnante di canto, ti parlo di quando avevo 17-18 anni, mi diceva sempre una cosa a cui non credevo: "Ci sono delle canzoni che puoi cantare solo dai 40 anni in poi" e tu immagina me, per un 18enne un 40enne è un vecchio decrepito. Io pensavo: "40 anniiiii? Ma io a 40 anni starò nella tomba, in pensione". Lei diceva che l'avrei capito, perché la voce ha bisogno di consumarsi, hai bisogno di vivere e di alcune canzoni non avrai mai la capacità di prenderti la responsabilità del testo, della melodia, fino a quando perdi quel senso di pudore verso le fragilità, perché certe canzoni hanno bisogno di vederti nudo. E io dicevo "Aaaaaahhhh, che palle!".
Ora hai capito…
Sì, poi ho capito: questo disco di cover non avrei potuto farlo a 30 anni, e non perché adesso sono bravo e pronto, ma perché per certe canzoni devi graffiarti prima di prenderle in mano, devi stancarti, perdere la timidezza. E poi c'è un elemento anagrafico importante, perché se cresci e lo fai investendo su te stesso e mettendoti in gioco, a 40 anni hai anche la capacità di fregartene di quello che gli altri dicono e inizi a fare delle cose per te. Cioè, io dopo 20 anni di carriera, il prossimo anno, voglio alzare l'asticella, non posso fare solo quello che conosco, ho bisogno di stimoli oppure crollo nella tristezza e nella ripetitività e questo me lo devo. È un po' come un rapporto d'amore e d'amicizia, a un certo punto devi alzare l'asticella e devi diventare onesto.
Però a questo punto mi costringi a chiederti cosa vuoi fare da grande?
Sai che recentemente ho cominciato un'amicizia bellissima con una donna meravigliosa che tutto il mondo conosce, che è Sandra Milo: ci siamo conosciuti sui social, è una donna generosa, abbiamo fatto telefonate molto belle e lei mi chiede sempre di me, sai cosa faccio etc. Un giorno mi ha detto: ma come fai? Con questo documentario, le mille altre cose, ti sei esposto in maniera così brutale, ma come fai a dormire la notte senza avere la testa affollata di questi pensieri?" e io le ho risposto che ogni notte prego e poi scrivo un inventario della giornata, fa parte del programma di recupero, e tra le cose nell'inventario c'è una lista della gratitudine, una lista delle cose per le quali sei grato durante la giornata. È facile parlare di cose bellissime se hai fatto una bella esperienza, se qualcuno ti ha reso felice, però io mi sforzo di inserire anche le cose che sono andate male, perché so che quelle cose alla lunga mi insegneranno qualcosa, anche se in quel momento sono rabbioso verso quella persona, quell'atteggiamento, io lo faccio e dopo qualche giorno scopro che era giusto, perché quella situazione mi ha aiutato. Quando le ho detto questa cosa lei ha fatto una pausa e m'ha detto: "Ma tu dove vuoi arrivare?" (ride, ndr). Mi ha inchiodato al muro, le ho detto che non lo sapevo: "Perché mi chiedi questo?", quindi lo dico anche a te, io non lo so, perché mi chiedi questo? È una cosa complessa, l'unica cosa che mi seno di dire è che l'unica cosa che conta è il progresso, non è la perfezione, il piacere a tutti, ma il progresso personale, sentirmi sempre di migliorare un pezzettino, come persona.
Devo farti due domande: la prima è se ti rendi conto che sia l'artista che ha portato la parola "farneticare" nelle case degli italiani, rendendola pop più di Battisti.
Io lo ricordo quando mi è venuta: era un giorno di Pasqua, stavo scrivendo il mio secondo disco e avevo questa musica, poi a un certo punto ho scritto tutto di getto, mentirei se ti dicessi che sono stato lì a cercare quella parola, perché quella frase è uscita come la senti nel disco. Avevo questo giro di piano e ho cominciato a cantare: "Solo che pensavo a quanto è inutile farneticare e credere di stare bene quando è inverno e te" e ti giuro che quella frase, melodia e testo, è uscita così, un flusso di coscienza che Joyce lèvate. Poi quella canzone ha avuto un miliardo di evoluzioni: la mia casa discografica e i miei produttori non la volevano, sai, io ero diventato un po' quella cosa di "Xdono", "Rosso relativo", "L'olimpiade" e questa era troppo classica, mi dicevano che sembrava un pezzo di Cocciante, troppo vecchia. Abbiamo provato tantissimi arrangiamenti, con dei beat etc per svecchiarla e a un certo punto ho detto "Fermi tutti, avete rotto le palle, questa è così e basta" e l'abbiamo lasciata così, nella sua spontaneità aveva una forza molto classica, non so come dirtelo, ma non ho meriti, è venuta così.
Resta, per te, una parola importante.
Ah, posso dirti che tra i titoli che avevo proposto per il documentario e che tutti mi hanno cassato, perché serviva un titolo che servisse dalla Germania all'Argentina, c'era: "Inutile farneticare". Un altro titolo era "L'anagramma del mio nome".
E veniamo a bomba, perché la seconda domanda era: come nasce "Notizia è l'anagramma del mio nome"?
Amo le parole, le lingue, la fonetica, da "Xdono" in poi la parola, nella mia scrittura, è quasi l'arrangiamento, non per le ballad ma sicuramente per quelle più veloci, quindi in realtà è frutto di una mia passione per i sinonimi, i contrari, le lingue. Un giorno ho realizzato questa cosa e avevo scritto la musica di "Indietro", con la melodia, e mi erano venute due frasi: "Notizia è l'anagramma del mio nome" e "L'amore va veloce e tu stai indietro", ma non mi veniva il resto. Mi permisi, quindi, di disturbare Ivano Fossati che scrisse il resto del testo e per farti capire quanto è mitico, mi disse: "Non voglio firmare il testo perché tu hai scritto due frasi talmente geniali che io ho scritto il contorno". Ovviamente non gliel'ho permesso di non firmare visto che il resto del testo l'ha scritto lui.
E Lady Gaga hai più avuto modo di incontrarla?
Pensa che con lei ho avuto una sfortuna sfacciata: l'ho incontrata l'ultimo giorno prima lockdown. Qui è andata come in Italia: all'ultimo secondo è arrivato il sindaco di Los Angeles e ha detto "Benvenuti nel lockdown da domani" e io un paio di giorni prima l'avevo incontrata e mi sono detto: "Pensa se questa cosa fosse stata schedulata due giorni dopo". La cosa che mi ha fatto sorridere è che siamo quasi vicini di casa. Lei è stata in grado di rendermi facile fare una cosa che non sapevo fare, ovvero il tuo mestiere.
Poi è arrivata Mara Venier a cui hai promesso che l'avresti intervistata…
Guarda, mi piacerebbe, ti do uno scoop, poi se si riesce a trovarlo diventate i miei miti: intorno al 2001, per un breve periodo, per un canale privato, feci interviste a dei personaggi. Ti giuro che non ricordo nulla, però intervistai Michele Zarrillo, Giorgia Surina, Ambra e mi piaceva molto perché ogni tanto fermarsi e ascoltare, non essere sempre tu, tu, tu, è curativo, a me rilassa ascoltare. È chiaro che nel mio mestiere, come hai visto, parlo sempre di me, logicamente, ma nella vita ascoltare mi piace tanto, quindi penso che potrei intervistare Mara con una certa sensibilità.