La rivoluzione di Nero a metà, l’album della consacrazione di Pino Daniele
Nel 1980 "Nero a metà" avrebbe chiuso l’anno tra i 20 album più venduti. Era l’anno di “Dalla” di Lucio Dalla, “Una giornata uggiosa” di Lucio Battisti, ma anche di un suo conterraneo come Eduardo Bennato con “Sono solo canzonette”, “Viva l’Italia di De Gregori” e a livello internazionale c’erano i Police o i Pink Floyd con “The Wall”. Insomma, Pino Daniele veniva da due album importanti come “Terra mia” e “Pino Daniele” che gli avevano dato un’enorme popolarità, ma “Nero a metà” fu dirompente, gettando il cantante in un’altra dimensione: è il disco considerato come quello che, dopo le prime “sperimentazioni”, riesce a unire una serie di suoni dandogli definitivamente l’impronta Daniele. Poi, come disse lui stesso nella sua ultima intervista, "Nero a metà" fu l’ultimo capitolo di una trilogia che lo rese quello che oggi conosciamo, lo fece artista.
Nero a metà, manifesto di Daniele
"Nero a metà" è il manifesto di Pino Daniele, è un album che unisce il blues, il funk, il soul, in cui ci sono il sentimento e il movimento, in cui Pino Daniele riesce a fare suo quello che era il patrimonio napoletano di quegli anni. Pochi anni prima erano usciti album e band fondamentali per Napoli e non solo: c’erano stati gli Showmen di Mario Musella, che è il cantante a cui si deve il titolo dell’album, era lui il nero a metà: Musella era figlio di un’italiana e di un soldato nativo americano, così come nero a metà era James Senese artista fondamentale per Daniele, fondatore sia degli Showmen che, successivamente, dei Napoli Centrale, poi qualche anno prima era uscito un album importante come "Rosso Napoletano" di Tony Esposito. Era una Napoli fusion, quello che avremmo ricordato come neapolitan power, appunto, in cui l’anima della città incontrava il mondo. Poi in questo incastro magico c’era una band composta da veri talenti, nelle sue file c'erano mostri sacri come Gigi De Rienzo, Agostino Marangolo, Ernesto Vitolo, lo stesso Senese, Rosario Jermano, Enzo Avitabile, Tony Cercola, Mauro Spina, tra gli altri. Tutti nomi che hanno scritto pagine fondamentali della musica napoletana.
Un cantautore impegnato ma non politico
Forse Pino Daniele non è ascrivibile al cantautorato impegnato che ha caratterizzato il nostro Paese, ma la sua musica – e anche quest'album – era assolutamente politica, nel senso più ampio del termine. In un’intervista di qualche anno prima Daniele diceva di essere “un cantautore napoletano che cerca di portare avanti un discorso di una Napoli completamente diverso da quello che è stata sempre: folkloristica, caratteristica, del sole, del mare” che è un discorso assolutamente politico. “A me me piace o blues” è una canzone simbolo in questo senso, è una canzone glocal, in cui mescola il napoletano col blues, appunto. In un’altra ormai nota intervista a Ciao2001 disse "Io sono nato con mio papà che ascoltava Glenn Miller, il boogie-woogie e la musica napoletana; io ascoltavo Elvis. Quello sotto casa mia teneva tutti i dischi di Elvis Presley e me lo faceva ascoltare. Dall'altra parte c'era quello che metteva Mario Merola e mi faceva ascoltare ‘O Zappatore. Quindi tra ‘O Zappatore e King Creole di Elvis, le due orecchie si sono fuse e ne è uscito qualcosa che non si sa bene cos'è".
La contemporaneità dell'album
Spesso, parlando di album usciti anni prima si parla con troppa facilità di quanto sia contemporaneo, cascando un po' nella retorica. Ma questo discorso non vale per "Nero a metà": ascoltandolo, infatti, non si ha l’impressione che si ha spesso quando si ascolta un album di quegli anni, ovvero di sentire un album anni 80 e questo è dovuto all’enorme varietà di suono che dava alla sua musica, come abbiamo detto. Qui mi lego a un tema che è molto generazionale e di cui si parla spesso coi cantanti più grandi e quelli più giovani. Oggi si parla spesso di playlist, di album playlist, quelli che all’interno hanno vari generi, che sono pensati per lo streaming. Ecco, con tutte le dovute cautele possiamo dire che Nero a metà è un po’ così, dentro ci sono tante anime e soprattutto se guardiamo, per esempio alla new wave del jazz inglese, un ambiente super stimolante in questi ultimi anni, quello di seconda generazione (Shabaka Hutchings, Nubya Garcia, gli Ezra Collective), ma anche a un certo rap (quello che si fregia di collaborazioni di noti jazzisti), si nota come la spinta sia sempre più quella di unire radici e contemporaneità. A volte questa cosa sembra un’etichetta, qualcosa “che si deve dire”, eppure ascoltare Pino Daniele è esattamente questo, unire il mondo con la radice che non è mai, appunto, folkloristica, ma che, anzi, quel folklore lo decostruisce.
Questo articolo nasce da una riflessione dovuta a un'intervista rilasciata a Zazà, trasmissione di Radio3, andata in onda il 27 dicembre scorso.