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La polemica sulla musica italiana in radio è una sciocchezza: le nostre canzoni sono già maggioranza

Enzo Mazza, Ceo di FIMI, spiega perché la polemica sulle quote di musica italiana in radio sia strumentale e racconta di come i giovani abbiano salvato la musica italiana.
Intervista a Enzo Mazza
Ceo di Fimi (Federazione dell'Industria Musicale Italiana)
A cura di Francesco Raiola
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Ogni tanto torna d'attualità la polemica sulle quote della musica italiana in radio: qualcuno si alza e tenta di cavalcare un tema che non ha senso cavalcare per il semplice fatto che l'argomento non ha basi fattuali. Lo dicono i numeri e lo spiega bene il Ceo della FIMI Enzo Mazza che ribadisce, ancora una volta come il problema di queste polemiche sia la scarsa conoscenza del panorama attuale. Ultimamente protagonista della richiesta è stato Morgan che ha cercato anche la sponda del nuovo Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che si è detto aperto alla possibilità di mettere delle quote. Eppure chi ascolta la radio o legge le classifiche streaming (sì, la distribuzione e il consumo della musica sono moto cambiati negli ultimi anni) sa che la musica italiana è molto presente nelle classifiche, spesso e volentieri con quote oltre il 50%: la classifica Earone delle canzoni più trasmesse in radio nel 2021 aveva 53 pezzi in top 100, questa settimana ci sono 6 canzoni italiane su 10. Se si contano le classifiche streaming, poi, non c'è più partita. Insomma, Enzo Mazza sfata il mito della musica italiana nelle radio e dice che i giovani hanno salvato la musica italiana.

Come mai periodicamente torna in auge la questione della musica italiana nelle radio?

Innanzitutto perché c'è una scarsa conoscenza di un'evoluzione che è stata molto repentina e spesso ci confrontiamo ancora con pregiudizi vecchi: la musica pop, il prezzo del disco, un mercato che vent'anni fa aveva dinamiche completamente diverse e che nella comunicazione, mediata dagli stessi giornalisti, è ancora rappresentata da un vecchio mondo che tutt'ora esiste. Pensiamo al tema dell'evoluzione del rap e della trap: è stata talmente repentina che in alcuni momenti c'erano artisti completamente sconosciuti ai media ma che facevano numeri incredibili nello streaming, quindi molto conosciuti dai ragazzi ma non dalle radio e dai grandi network. Oggi si parla della musica trap quando è già passata, vista l'evoluzione velocissima del fenomeno, un po' come il discorso che la musica è quella live, che la discografia è in declino, quando è tutto cambiato. Nel frattempo c'è stato il rilancio dell'industria, con investimenti soprattutto sui giovani, il cambiamento del Festival di Sanremo diventato centrale per l'industria etc.

Un altro dei punti di cui si discute è quello della qualità, come se una volta fosse maggiore…

La qualità dipende dal momento storico, io ricordo benissimo quando ero ragazzo e mio padre, che era un esperto di musica e musicista, entrando nella mia stanza e ascoltando Pink Floyd e i Doors mi diceva che la musica di quel tempo faceva schifo. Oggi succede la stessa cosa, c'è gente che dice che la musica fa schifo, però milioni di ragazzini la ascoltano, quindi come si fa a definire la qualità? Sicuramente c'è un tema di qualità della produzione, quindi si può sostenere che il linguaggio musicale non sia evoluto, sia basico, però quando Mozart scriveva le prime operette furono considerate opere non di altissimo profilo. È il momento che determina se qualcosa è o non è qualità.

Quanto conta il pubblico?

Oggi siamo in un mondo disintermediato anche dal punto di vista della comunicazione: ci sono artisti del mondo hip hop e rap che erano in cima alle classifiche che non venivano neanche intervistate e non passavano e passano in radio perché c'è un filtro. La musica oggi è totalmente democratizzata: milioni di ragazzi su Youtube o TikTok scoprono un artista e quello diventa un successo, e magari nessuno aveva previsto che quell'artista potesse fare successo.

Insomma possiamo dire definitivamente che questa cosa della musica italiana che non passa in radio è una sciocchezza?

Assolutamente, oggi è il contrario, oggi passa molta più musica italiana di quella internazionale. Ce n'è ancora di più in radio che in streaming, ma ormai lo streaming è diventato dominante, così come dominante è TikTok. Se fai caso, però, notiamo c'è un avvicinamento anche delle classifiche radio e streaming, là dove prima c'era più distacco oggi c'è un avvicinamento. In più fino a qualche anno fa l'avvicinamento di alcuni artisti a Sanremo era improponibile, mentre oggi è cambiato tutto.

Possiamo dire che i giovani hanno salvato la musica?

Certo, in dieci anni l'età media degli artisti in Top 10 è scesa del 35%, quindi c'è tanto un ricambio generazionale tale che se fosse avvenuto in Inghilterra, negli Usa, avrebbe avuto le prime pagine dei giornali. Credo che nessun settore, in Italia, ha avuto un ricambio generazionale di questa portata, un po' grazie alle tecnologie e un po' grazie alla capacità di questi giovani artisti di essere più bravi nell'adeguarsi anche ai nuovi generi e andare incontro ai ragazzi, perché alla fine è una generazione Spotify che parla a una generazione Spotify, la GenZ, sostanzialmente. Questa cosa ha cambiato al musica.

E le etichette come si sono comportate?

Sono state brave nel momento in cui c'era una grossa crisi: il ricambio generazionale è cominciato dieci anni fa e dopo anni ha visto un'esplosione di nuovi artisti e generi musicali. Ma resta il fatto che gli investimenti ci siano stati ben prima dell'esplosione in un periodo di forte crisi, quando le aziende magari tagliavano i costi ma tenevano gli investimenti sull'A&R e gli artisti. Alla fine è stato qualcosa che ha pagato: avresti potuto ridurre gli investimenti per tenere grandi star e cercare di andare avanti con queste.

Le canzoni sono sempre cambiate in base alle piattaforme, oggi che succede?

È tutto cambiato con lo streaming, le canzoni si sono accorciate, TikTok sta ancora di più riducendo i tempi ed è diventato fortemente competitivo anche sullo streaming non solo sulla promozione. Ha cominciato come piattaforma di promozione e adesso si sta trasformando in una piattaforma di consumo e cambia tutto anche a livello di video, siamo già oltre quelli di Youtube. Sono cambiamenti così veloci che devono essere affrontati con delle strutture e caratteristiche all'interno delle aziende che sono diverse da quelle di una volta.

E oltre a tutti i lati positivi, quali sono quelli negativi di questi cambiamenti?

La musica oramai non è solo musica, gli artisti sono diventati influencer, fanno anche altro, c'è il mondo del live che ha un certo tipo di comportamento, ci sono tutti questi elementi. L'artista, oggi, si interfaccia molto di più coi fan rispetto a quelli del passato: oggi è costantemente in contatto, tra social, video, singoli che escono a ripetizione, feat con artisti di un altro mondo, c'è un cambiamento che sotto certi profili è positivo, lo è quando ci sono ricambio, nuove forze e nuove produzioni intellettuali. Per quanto riguarda il lato negativo, paradossalmente questa grande democratizzazione della musica ha fatto sì che l'offerta sia imponente, abbiamo 60-70 mila tracce caricate su Spotify ogni giorno, e chiaramente è molto difficile emergere perché non c'è più una barriera all'ingresso. Questo probabilmente sta creando un problema di identificazione dei veri talenti perché magari ce ne sono alcuni che all'interno di questa offerta enorme hanno difficoltà a farsi scoprire. Mentre la promo, tanti anni fa, era solo radio e tv e se avevi un buon ufficio stampa riuscivi a lavorare bene, adesso è complicatissimo: spesso il tuo successo viene determinato dai fan, è difficile imporre qualcosa dall'alto, questa è una rivoluzione che viene dal basso, coi ragazzi che si scambiano link, video, brani… Qual è il problema? Che c'è un'iper offerta e forse a un certo punto accadrà qualcosa sulle piattaforme per cui si cercherà di favorire e individuare delle modalità di emersione di certi talenti che oggi non riescono a farsi vedere.

Deve cambiare anche il lavoro di scouting?

Certo, è un lavoro immenso anche perché ormai, per definizione, sei globale, nessuno esclude che tu possa avere successo all'estero, vedi quello che è successo coi Maneskin.

Ecco, i Maneskin: forse pensavamo che potessero essere il traino alla musica italiana che poi non sono stati, no?

Sicuramente una strada da poter affrontare – ci stiamo ragionando anche col nuovo governo – è fare in modo che ci sia un'azione congiunta delle istituzioni per far sì che queste opportunità che ci sono nella musica possano essere coltivate e portate all'estero. Bisogna fare molto più sistema, il modello della Corea del Sud è un modello interessante: hanno fatto un'azione interessante col K-Pop, che non è esploso solo per l'attività svolta dalle aziende e dal repertorio ma anche per gli investimenti fatti dal Paese. Anche noi abbiamo queste opportunità perché in fondo i Maneskin interpretano questo filone: sono ragazzi internazionali, sono giovanissimi, sono fashion, rappresentano l'idea della moda e dello stile italiano.

Però comunque non fanno da traino…

Perché è un fenomeno che è molto difficile replicare e può succedere ogni dieci anni.

Che rapporti state avendo col nuovo Governo?

Noi pensiamo di dover incontrare un favore da questo Governo soprattutto per il fatto che rappresentiamo un settore che sta facendo tantissimo sulla musica italiana, quindi è un governo che vuole muoversi sul mondo del made in Italy, sulla promozione del brand Italia questo potrebbe essere un aspetto interessante. Noi contiamo di mantenere quel regime di tassazione ottenuto negli ultimi anni che ha favorito lo sviluppo di tanti artisti, il tax credit musicale, il bonus cultura che ha aiutato tanti giovani a tornare alla musica legale, e la nostra idea di cercare di strutturare meglio una cooperazione Istituzione-privato sull'estero.

Quindi questo Governo dovrebbe conservare alcune iniziative dei Governi scorsi?

Sì, ma quelle cose che c'erano erano state votate in maniera bipartisan, nessuno ha potuto metterci il cappello sopra. Certo il problema delle quote, come abbiamo spiegato, è una cosa impraticabile, anche perché siamo ben oltre.

Quindi non è vero, come dice Morgan, che la vostra rivoluzione fa arricchire le filiali americane, giapponesi e tedesche?

In realtà è il contrario, le aziende internazionali stanno mettendo più soldi sull'Italia di quelli che mettono in spesi in cui c'è solo lo sviluppo di un artista internazionale. Loro esportano più che importare, quindi stanno creando talenti italiani, stanno facendo grossi investimenti sui talenti italiani, i soldi vengono qua. In più se guardi le classifiche internazionali di Spotify spesso ci sono artisti italiani, certo è un pubblico nazionale, ma resta comunque una vetrina. Ti do un dato in anteprima: siamo saliti da 19,2 ore alla settimana di ascolto si musica nel 2020 a oltre 20 ore nel 2021, quindi un'ora in più. L'ascolto di musica è tantissimo, anche perché ormai c'è tanta modalità d'ascolto poi una cosa che ho trovato interessante è che negli ultimi anni la musica monetizza dove possibile, non c'è più quel rapporto difficile con la tecnologia, ma da qualsiasi cosa nasca vengono fuori attività che portano la musica non solo a promuovere gli artisti ma anche a generare ricavi.

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