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La geografia del buio di Michele Bravi: “Non è la musica che ti salva da un dolore enorme”

“La geografia del buio” è l’album con cui Michele Bravi affronta l’enorme dolore che lo ha colpito negli anni scorsi, quando è stato coinvolto in un incidente in cui è morta una donna. Un album in cui racconta come si riesce a convivere con questo buio, non di come se ne esce, come ribadisce lui stesso in un’intervista a Fanpage.
A cura di Francesco Raiola
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Michele Bravi (ph Clara Parmigiani)
Michele Bravi (ph Clara Parmigiani)

"La geografia del buio" è l'album con cui Michele Bravi affronta l'enorme dolore che lo ha colpito negli anni scorsi, quando è stato coinvolto in un incidente in cui è morta una donna. Un album in cui racconta come si riesce a convivere con questo buio, non di come se ne esce, come ribadisce lui stesso in un'intervista a Fanpage. Era già successo che Bravi si presentasse di nuovo al pubblico cambiando pelle, da cantante di talent a youtuber, poi di nuovo cantante e oggi riemerso dopo un'esperienza che assieme a un gruppo di amici è riuscito a mettere in musica e in testo. Un percorso in cui la musica ha avuto la sua importanza, ma solo successivamente alla terapia, come sottolinea, perché la musica non salva, ma dà ordine alla confusione. Bravi comincia l'album con uno spiraglio di luce e lo chiude con il silenzio che ha dovuto affrontare prima di tornare a parlare, e nel mezzo un pop delicato, e il racconto di un ragazzo che, citandolo nonostante si mostri invulnerabile è "solamente diversamente fragile".

Ciao Michele, sei giovanissimo ma hai già vissuto tante vite: a che punto siamo artisticamente parlando e non solo?

Sono in un momento artistico molto consapevole, molto presente, non so se esagero, ma mai come adesso ho un'adesione totale tra mente e corpo, come mi muovo è come penso e come penso è come mi muovo. La stessa cosa funziona per le canzoni, che non hanno mai aderito così tanto alla mia storia e non hanno mai mostrato in maniera così fragile tutte le vulnerabilità che sono parte del mio percorso, della mia storia, che poi è la storia di qualsiasi momento buio, insomma, siamo in questa fase molto vulnerabile ma molto umana.

Già anni fa mi dicesti che amavi scrivere in maniera diaristica, quindi sempre partendo dalla tua vita, cosa che hai fatto soprattutto stavolta, no?

Inevitabilmente, non a caso il mio primo pezzo di successo si chiamava "Il diario degli errori". Per me è difficile immaginare me che canto qualcosa che non ho vissuto, o che vivo qualcosa che non ho cantato, chiaramente mi è più facile e congeniale scrivere di esperienze che ho vissuto sulla mia pelle. La magia della scrittura è che rende una storia così particolare e singolare, universale, un posto accessibile a tutti e con "La geografia del buio" la volontà è proprio quella aprire a un dolore che è così specifico e renderlo comprensibile a tutti.

In che modo avviene questa comprensione?

Ho capito una cosa, che il dolore si presenta in tanti modi diversi, con tante storie e contingenze diverse con tanti protagonisti diversi, però parla sempre la stessa lingua e ho cercato con grande umiltà e gentilezza di rendere "La geografia del buio" un posto accessibile a tanti dolori che si riconoscono tra di loro.

Michele (ph Bravi Clara Parmigiani)
Michele (ph Bravi Clara Parmigiani)

Hai detto che concetto di dolore non bisogna combatterlo ma viverlo, attraversarlo e che questo spazio del dolore lo hai arredato: come? 

L'ho fatto rompendo tutta una serie di stigmi che ci sono sul dolore. Molte volte, quando si parla di dolore, si pensa a qualcosa che ti invitano a ingoiare, stritolare, farlo implodere, nasconderlo, aspettare che il tempo lo lenisca, ma non è così, anzi queste sono informazioni pericolosissime da dare sul dolore. Io mi immagino sempre un mondo in cui nessuno sa cos'è uno starnuto e a un certo punto starnutisci e senti il tuo corpo implodere, uno spasmo nel torace a cui non riesci a dare un nome, immagina lo spavento che può causarti, poi qualcuno arriva e dice di stare tranquillo che quello spasmo si chiama starnuto, quello che stai vivendo si chiama raffreddore e si guarisce dal raffreddore facendo questo, questo e questo. E col dolore vale lo stesso principio, con la differenza che tutti hanno paura a chiamarlo starnuto, raffreddore, eppure bisogna trattarlo con la stessa dinamica: davanti a un grande dolore l'unica possibilità di recupero è un percorso medico, io ci tengo tantissimo a sottolinearlo e in qualche modo spero che questo disco riesca nella sua missione di rompere uno stigma che c'è dietro la salute mentale. Il dolore va curato da un medico, con qualcuno che ti indica la strada da percorrere. Molte volte si dice, sai, che la musica mi ha salvato, invece no, la musica non mi ha salvato da niente, è stata la terapia a salvarmi, la musica mi ha aiutato a cristalizzare un momento a dare un ordine alla confusione e questo è successo solo dopo la terapia.

Non è un caso, quindi, che una delle firme di Mantieni il bacio sia quella dello psicoanalista Massimo Recalcati?

Massimo è stato un grande amico ed è stato molto generoso a regalarmi le sue parole. "Mantieni il bacio" è il titolo di un suo trattato sull'amore che a un certo punto scopro: trovo che "Mantieni il bacio" sia una dichiarazione d'amore potentissima. Assieme abbiamo rielaborato questo suo testo per farlo diventare una canzone, un manifesto della promessa dell'amore che si rinnova tutti i giorni. Mantieni il bacio è l'alternativa più umana che si ha per scommettere sull'eterno. Ogni giorno trattenere sulle labbra la sensazione di un bacio e con quel singolo gesto rendere la casualità dell'incontro di chi si ama, renderla un destino, trasformare il caso in destino.

Tra l'altro Recalcati è lacaniano, lavora molto sul concetto di desiderio, quindi ti chiedo anche come è cambiato quel concetto che riprendi anche nella cover della canzone di Federica Abbate.

Tutto questo disco, nella sua scrittura, è un percorso di coscienza di sé, come se venissi calato in una stanza che non conosci, al buio, e la prima cosa che fai è sbattere contro tutte le pareti, sbattere con lo spigolo di un tavolo, finché trovi qualcosa di morbido: questo disco è un concept, una storia che va seguita capitolo dopo capitolo per capire qual è la geografia dello spazio che stai vivendo, qual è l'orientamento che puoi scoprire nel silenzio che trovi all'interno del disco o nelle parole che il disco evoca. Ripeto, è un disco che parla di come si convive con il buio, non di come se ne esce, è questa la cosa su cui insisto tanto. "La geografia del buio" mi ha insegnato a dare uno spazio a questo dolore.

C'è il rischio che questo messaggio metta in secondo piano la parte musicale? Come ci hai lavorato?

Guarda, raccontare il dolore non serve, il dolore è un processo e per raccontarlo serve una storia, una storia che non finisci mai di scrivere. Tenevo tantissimo al fatto che questo disco fosse un'esperienza tecnica del dolore: tutto il disco si basa su due elementi specifici che sono la mia voce e un pianoforte, che è un piano particolare, verticale, del 1920, che nella sua materia viva, che è il legno, trattiene tutta la storia difficile che si può vivere a cavallo del 900. È un pianoforte che racconta il suo equilibrio instabile tra una nota accordata e una stonatura che può arrivare e la stessa cosa vale per la voce, registrata con tutte le sue rotture, imperfezioni, è tutto registrato in presa diretta, non esiste il clic all'interno del disco, è un continuo dialogo tra me e il pianoforte e questo credo sia un modo tecnico per dimostrare come si può vivere con l'imperfezione del suono e con l'imperfezione di una superficie legnosa. All'interno del disco puoi sentire lo scricchiolio del seggiolino del pianista, che è Andrea Manzoni, puoi sentire il suo respiro prima di premere i tasti del pianoforte, puoi sentire il mio respiro primo di cominciare a cantare e anche il ronzio del frigorifero, perché l'ho registrato nel salone di casa: tutto questo silenzio che in realtà è un ronzio continuo il ronzio del trauma.

Michele Bravi (ph Roberto Chierici)
Michele Bravi (ph Roberto Chierici)

Come hai lavorato con gli altri autori a un album così personale?

Il mio è un team di scrittura molto piccolo, normalmente quando si lavora a un album pop il team di scrittura è vasto, ma i nomi coinvolti sono tutte persone della mia vita, tutte persone che quella storia di cui stiamo parlando la conoscono, l'hanno vista succedere, che hanno invitato a cena la persona che ha ispirato il disco, ci hanno parlato, erano lì con me. È chiaro, quindi, che quando mi sono trovato con la volontà di rimettere in ordine le cose tramite la musica e di andare a maneggiare un materiale intimo e doloroso mi è venuto naturale rivolgermi a loro che erano principalmente amici e con l'amicizia hanno messo in campo la professionalità, per trovare le parole, la scrittura e l'immaginario musicale giusto.

Hai invertito inizio e fine tracklist, come mai?

Non è casuale, perché la prima cosa che serve quando qualcuno comincia a suggerirti una strada nel buio è dirti che c'è la possibilità di uscire, non a caso apro il disco con una promessa, che è "La promessa dell'alba", l'alba ti promette che sorgerà quando ancora il mondo è buio e volevo che ci fosse questo piccolo momento di speranza all'inizio, prima di addentrarsi nel buio più pesante. L'ultima traccia del disco è quella che ti permette di riguardare al momento in cui non c'era neanche la voce, ma solo buio e pianoforte, perché non riuscivo a cantare in quel momento e l'ultimo momento in cui a quel buio dai spazio, perché riesci a guardarlo in faccia, riesci ad ascoltare l'essenza di suono che quel buio comportava.

“Essere fermi vuol dire non essere. Muoversi, essere. Il mio non è un mondo dell’essere; è un mondo del divenire” scrive ne "Il dono oscuro" John Hull, in un libro sulla cecità. Quando hai capito che era il momento di ricominciare?

Lo conosco molto bene quel libro, mi ha fatto riflettere molto sull'identità visiva che le persone hanno di sé. A un certo punto lo scrittore parla di come ascolta la pioggia, sai, normalmente noi diciamo che è una brutta giornata perché piove mentre nel suo mondo, con questa sensorialità diversa ti dice che la pioggia è come guardare un panorama perché a seconda di dove cade la goccia lui riesce a stabilire un orizzonte, la distanza della caduta delle gocce di pioggia gli dà la possibilità di creare una spazialità che con una giornata di sole non riesce ad avere. E questa identità visiva che riesce a crearsi per me è stata illuminante. Dietro questo disco c'è tanto studio rispetto a quello che hai citato o ad altri scritti come quelli di Oliver Sachs, è stato importante vedere come le persone affrontano la realtà con un'impostazione anche diversa, in cui cambia la sensorialità: nel caso di Hull si parla del percorso verso la cecità assoluta, in quello di Sachs di allucinazioni, in questo disco c'è tanto studio della tipologia di approccio alla realtà.

Hai detto di essere grato a Maria De Filippi: in che modo ti è stata vicina?

C'è stato un momento in cui tutti mi chiedevano con insistenza "Come stai?" e tutti si aspettavano una risposta che non riuscivo a dare perché non la conoscevo neanche io. Maria è stata la prima persona che non mi ha mai chiesto come stavo ma mi ha chiesto semplicemente di cantare e io tramite quel canto e quelle prime esibizioni sono riuscito a rispondere a me stesso a quella domanda iniziale. A lei sono grato infinitamente perché con lei ho fatto tanti passaggi per riscoprire anche la magia di un palcoscenico, la voglia di incontrare gli occhi di un pubblico quando canti e non stai tutto il tempo a occhi chiusi. Ho riscoperto tanto tramite lei e le devo una gratitudine infinita perché mi ha dimostrato, con gesti sottili, di avere una grande umanità e una grande gentilezza e una grande pazienza di aspettare che compissi tutto il processo.

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