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La Bestia Carenne: “L’arte è inutile, ma a volte si insinua in noi e non la spazzi via”

La band racconta a Fanpage.it il terzo album “Coriandoli”, un campionario di suoni e parole che elude la casualità e nasce dalla voglia di non ripetersi.
A cura di Andrea Parrella
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Intensi, ruvidi, aggressivi; poi lievi, armoniosi, delicati. Ascoltare la Bestia Carenne significa fare una gincana di equilibrio su questi impulsi alterni. Un esercizio di ginnastica emotiva che il loro terzo album, "Coriandoli" (disponibile su Spotify, Youtube e SoundCloud), prova ad illustrare in una sequenza di suoni e melodie portate in tour in queste settimane. Un disco credibile, dalle sonorità consapevoli e i testi ricchi di pennellate metaforiche sfuggenti fino a che non le ascolti. Nove tracce, un minimo comune denominatore: la voglia di non ripetersi.

Partiamo dal principio: ci spiegate i coriandoli?

L'arte è una cosa inutile, non ha nella sua sostanza un'utilità ed è essenzialmente votata all'inutilitarismo. Questo nel senso che non ha uno scopo utilitaristico, non serve. Di un quadro ne faremmo benissimo a meno. A cosa serve se non a solleticare sensazioni, belle o brutte, che non hanno un immediato ritorno. Una sega serve per tagliare il legno, ma a cosa serve una canzone? Ecco, i coriandoli non servono se non per colorare una festa, per poi essere dimenticati per terra, inutili e marginali pezzi di carta. Si insinuano, però, a volte si insinuano. Tra le crepe della strada e sono difficili da spazzare via. Il vento spesso li trasporta.

"Il mare inghiotte, Il mare annienta", "le nuvole bianche, le nuvole nere". L'intero disco pare segnato da elementi che denotano una sorta di ineluttabilità della natura. Più che il perché mi piacerebbe sapere come si inserisce questa componente nelle vostre composizioni: si è intromessa, o alcuni pezzi sono stati costruiti in ragione di essa? Ha a che fare con i luoghi nei quali avete composto il disco?

Sì è vero, parafrasando alcuni tratti di qualche nostra canzone ne viene fuori una sorta di ineluttabilità delle cose, della natura, delle nostre esistenze. Una specie di deriva, un naufragio nel mondo e del mondo, che si ripete continuamente. Tra l'altro, proprio “Il nome di Saffo”, (la canzone de “il mare inghiotte il mare annienta", che avete citato) è tratta da i “Dialoghi con Leucò” di Pavese, che attraverso il mito delinea proprio questo tema dell'ineluttabile. “Il mito, necessario e impossibile nello stesso tempo”. In ogni caso non direi che si è intromesso questo tema, perché già altri precedenti lavori lo contemplano, ma nemmeno i pezzi sono stati costruiti in funzione di esso. Per quanto riguarda i luoghi, poi, certamente hanno giocato il loro ruolo. L'abbiamo composto a Procida, sull'isola. Un luogo ideale, per comporre e secondo il nostro modo di intendere il lavoro di composizione e registrazione, un atteggiamento più che un luogo.

L'album è ricco di sonorità e atmosfere armoniche variegate, di diversa estrazione, tante da lasciare l'impressione che, a primo impatto, vi siate prefissati l'obiettivo di sparigliare le carte, sfidando l'ascoltatore a ripetere l'esperienza per approfondire. Qual è il filo conduttore che ha guidato il concepimento dell'opera?

Beh, innanzitutto non c'è nessuna lotta con o contro l'ascoltatore. Non si crea per o contro qualcuno nel senso di una sfida. Quindi l'obiettivo non è di certo un duello. Anzi a maggior ragione l'ascoltatore, proprio per l'eterogeneità, dovrebbe essere stimolato a ripetere l'esperienza, ma in ogni caso sono fatti suoi e non di chi compone un disco. Detto ciò, il disco è stato esposto alla voglia di non ripetersi, di perdersi al di là delle proprie capacità o dei propri limiti. Abbiamo decostruito e smantellato il processo creativo e ne è venuta fuori questa sua personalità.

"La notte di San Giovanni" mi si è fissata in testa e trovo sia il pezzo più riuscito e melodicamente efficace dei nove dell'album. Condividete? Ce n'è una che preferite o sospendete il giudizio per evitare che alcuni dei figli "si prendano collera" (espressione napoletana che significa "essere risentito")?

Sì, certamente “La notte di san Giovanni” è il pezzo più immediato. Forse perché ricamato meglio su strutture già acquisite e metabolizzate. È bello, comunque. Ci piace, a volte la detestiamo, come per tutte le canzoni, ma alla fine ci piace. Se vi dobbiamo dire un pezzo preferito, non saprei, cambiano. A volte uno e a volte un altro, ma senza collera. Saranno pure figli, ma il nostro rapporto con esse è più animale. Come le bestie nella giungla, una volta allattati i cuccioli, poi li lasciano in pasto alla vita. Senza rancore, devono imparare a lottare e a cavarsela. Non è un abbandono, è uno svezzamento. Le canzoni più sono tue e meno sono tali. Devono diventare degli altri per essere delle canzoni.

In "Coriandoli" non mi pare ci sia traccia di dialetto, che recentemente è sempre più vezzo che vizio delle espressioni musicali campane. La vostra è una scelta strategica o deriva da un impulso compositivo che trova sfogo solo nell'italiano?

Non abbiamo mai scritto in dialetto. Prima di tutto perché non siamo tutti napoletani. Poi, come disse una volta il Salada, che è il nostro manager; italiano, napoletano, russo, cinese, la lingua non è la sostanza, e uno strumento per interpretare e veicolare un momento, un determinato contesto. È l'aderenza ai tempi, non la lingua quello che conta. Ci sono molti esempi illustri di napoletani che scrivevano in dialetto ed erano perfettamente aderenti e coerenti con quella che era la scena non solo nazionale, ma internazionale. Come il trip-hop degli Almamegretta, contemporaneo a ciò che accadeva a Bristol. “Sanacore” è un disco attuale ancora oggi, e nessuno si è mai fatto il problema se fosse scritto in napoletano o qualsiasi altra lingua.

La domanda di rito è: a chi ispira La Bestia Carenne? (Buona anche l'alternativa "a chi aspira?")

A chi ha fatto musica che non è fatta su misura, non è calibrata necessariamente su modelli già dati, che cerca respiro e sente sempre stretti i panni che calza ogni volta. Ecco, messa così stiamo perfettamente tra le due categorie della domanda (ispirate\aspirate). Al di là di ciò, ci sono molti gruppi, anche attuali, che ci hanno ispirato in questo lavoro. Ne cito uno, che è in Italia proprio in questo periodo: gli Algiers, un gruppone.

La facilità con la quale oggi puoi arrivare a far ascoltare la tua musica se sei un emergente è, forse, direttamente proporzionale alla difficoltà di farsi spazio tra un numero esorbitante di artisti che ci provano. Un po' come se, suonando tutti, non suonasse nessuno. Quale ricetta osservate voi per tentare di distinguervi dalla sconfinata quantità di musica che ogni giorno si può ascoltare liberamente?

Difficile dirlo. Pensiamo che mantenere una “linea dura” , come spesso ci diciamo, o più semplicemente “netta”, possa in qualche modo tracciare una piccola differenza, ma non è sempre facile e sopratutto per niente scontato. Naturalmente parlo delle scelte artistiche e di produzione. Il mondo della musica e sopratutto quello che c'è attorno alla musica, spesso fa venire la nausea. Scegliere una via più che un'altra fa differenza, anche se non sempre aiuta a distinguersi. Potremmo citare l'ultima frase de “il cecchino”, che è un brano contenuto nel nuovo album, ma per non essere autoreferenziali invitiamo il lettore ad ascoltarla.

Siccome ripudiamo lo spoiler, ascoltate l'album.

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