L’hip hop non è (solo) per ragazzini
È una truffa. Parte tutto da un imbroglio. Cosa? L’intero music business, quella macchina infernale della quale i giovani si sono innamorati perché non avevano niente da fare, si potrebbe dire parafrasando Tenco alla maniera dei rapper. Sembra assurdo ma è esattamente così. La saga del rock’n’roll alla Elvis inizia difatti in quegli anni 50 americani che la seconda guerra mondiale aveva trasformato in un periodo di grande benessere per gli Usa. È allora che si comincia a parlare di teenager: un target di consumo ricettivo che nasce in concomitanza con l’idea di tempo libero. Le due “invenzioni” combinate assieme diventano una pozione magica, almeno per i produttori di dischi, sneakers e giubbotti di pelle che attirano gli allocchi in virtù di status symbol tanto diffusi da diventare costumi mondiali solo pochi anni dopo. Una tecnica talmente stabile da essere determinante ancora oggi.
Il boom del rap italiano dipende dagli stessi parametri. Inizialmente era la tv di Jovanotti ad attrarre nella rete, oggi, deposto in parte lo strapotere del tubo catodico, sono altri schermi e alte reti a trasmettere l’andazzo. A chi si devono le migliaia di visualizzazioni dei videoclip sul web se non ai giovanissimi? Gli adulti hanno certamente meno tempo da spendere al pc e poi guadano ancora la televisione. In più c’è l’adolescenziale voler far parte di qualcosa, indossando magari le stesse scarpe dei propri beniamini, che poi si tratti di Fabri Fibra o di Eminem non cambia molto se non la griffe che sponsorizza l’affare e le cifre investite.
Che l’hip hop sia una roba per ragazzini però non è affatto vero. Perché? Basti pensare che la maggior parte dei rapper italiani di rifermento ha più di 30 anni. E poi c’è la genesi politicizzata di quell’ondata denominata golden era che ha portato alla ribalta il genere negli anni 90: le posse, anche se sono state solo un fenomeno parziale, hanno certamente influito sull’etica di una generazione, ovvero quella che si è avvicinata all’hip hop due decenni fa. Uno dei nomi più in linea con la validità tanto della forma, stilosissima, quanto dei contenuti di questa visione matura è certamente quello di Danno. Simone, infatti, una delle due voci di quel portento di crew battezzata Colle Der Fomento, è l’archetipo d’indipendenza morale e musicale quanto della passione per un genere ed una cultura ai quali ha dedicato la vita. Conduce una trasmissione radiofonica, "Welcolme to the jungle", divenuta un’istituzione nazionale ed anche un party settimanale contestuale al programma, che ovviamente non va in onda su un’emittente commerciale e non bada troppo al mainstream. In più, con il suo moniker Artificial Kid, ha realizzato un disco epocale che giocava con la politica quanto con l’elettronica pur restando fedele al boom bap. Ebbene, lui, interrogato sul come mai non incidesse per una grande etichetta multinazionale ci ha risposto: “Non credo che una major ci offrirà mai qualcosa, siamo un gruppo con un’identità e una storia molto forte, non accettiamo facilmente compromessi e non ci facciamo dire da nessuno come scrivere i ritornelli o le rime, ci piace fare di testa nostra e invece le major ora vogliono il ragazzino da vestire, pettinare e costruire in ogni minimo dettaglio, secondo logiche di marketing a me spesso incomprensibili”.
Un’affermazione forte, certo, ma rilasciata con la naturalezza del freestyle. Il lifestyle non è acqua e su questo non ci piove. E non è il solo a guadare le cose da questa prospettiva. Per citare un altro dei nomi che fanno la differenza con la massa e che aprono alte prospettive c’è bisogno di rispolverare una parola cara a Finardi quanto ai partigiani, ma senza dare al termine un colore politico e concentrandosi ancora sul lifestyle inteso come modus vivendi. Qual è la parola? Abbiamo detto a Kiave che il suo disco è un album ribelle e lui non se n’è affatto vergognato, anzi ha trovato un nesso ulteriore a questa affermazione, tra tesi e antitesi, proprio come è solito fare nelle lezioni sull’hip hop che porta avanti nelle scuole italiane. “Mi piace la parole ribelle, vuol dire che chi agisce lo fa di testa propria, e per farlo tocca avere forza, molta più forza di quanto si pensi. Opporsi, lottare, è la cosa più difficile; accettare tutto passivamente, lasciandosi scivolare addosso le proprie scelte e incaricando terzi di perseguirle, è la cosa più facile, quasi facile quanto odiare, per questo odiare mi annoia. Amare è difficilissimo, vero, ma quando ami quello che fai, quando ami la tua lotta e questa diventa la tua missione, sei sì in una giungla di difficoltà, ma sai anche che ogni giorno in più in quella giungla dipende da te, solo da te, e questa è la cosa più gratificante in assoluto”.
Ecco, il rock’n’roll, oltre ad essere un veicolo per indurre i teenager al consumo, era ribellione, era sesso, amore, energia, anticonformismo, era musica nata rubando le scale del boogie woogie ai rent party degli afroamericani, ma era commistione più che furto forse, tant’è che ha cambiato il mondo e costretto ad accettare l’r’n’b come un genere di suono e non di razza, abolendo la definizione di race music e la classifica discografica con lo stesso nome nella quale era stato relegato per anni. Le parole sono importanti e vanno associate bene. Non è l’unione che fa la forza o c’è ancora bisogno di derby e scontri? Il rap, come evoluzione culturale di queste vicende, porta con sé le stesse contraddizioni e le stesse truffe, ma anche un potere ancora più eversivo di quei pezzi cantati e suonati che avevano composto il mondo degli anni 50 e dei due decenni successivi. Ed è naturale che questa ribellione abbia già degli eredi, come che sia uscita dal tubo catodico e divenuta ancora più libera. Gil Scott-Heron sosteneva che “la rivoluzione non sarà teletrasmessa” ed era uno dei progenitori più autorevoli di tutta questa saga…