Kurt Cobain, il bambino che non avrebbe mai compiuto 50 anni
Il bambino di dieci anni chiuso nel furgone del padre voleva diventare subito grande. Se i piedi fossero arrivati fino ai pedali gli sarebbe bastato solo girare la chiave per fuggire. Chissà dove, ma neanche gli interessava la direzione, purché fosse lontano da Aberdeen o Montesano, angoli cupi di un’America con la scacchiera delle strade tutte identiche, le case basse, i semafori appesi a fili sopra gli incroci a dondolare desolati per il vento infame e gelido delle montagne lì attorno.
Il bambino di dieci anni di nome Kurt voleva dire addio a mamma, papà e non ascoltare più quando lo sballottavano da una casa all’altra, da una cameretta all’altra, che le persone a un certo punto smettono di amarsi, non stanno più insieme, bisogna accettarlo, il mondo va così e che la colpa non è di nessuno. Però l’incantesimo non riusciva. Gli restava solo la musica, un’unica cassetta, da riportare ogni volta d’accapo, “News of the World” dei Queen. Il fragore di “We will rock you”, poi l’inno liberatorio di “We are the Champions” a rimbombare tra i finestrini appannati. E scompariva tutto. Anche se per poco. Il tempo di una canzone, e sentirsi trascinato dentro un’onda elettrizzante che sembrava fatta apposta per lui. Il piccolo Kurt a dieci anni voleva essere come Freddy Mercury. Quando il padre Don andava a riprenderselo certe volte lo rimproverava per aver scaricato la batteria.
Diciassette anni dopo, alle 8,40 del mattino del 5 aprile 1994, a fianco al corpo di Kurt Cobain, suicidatosi nella sua casa di Seattle con un colpo di fucile, c’era una lettera. Addio alla moglie Courtney Love, tanto amore per la figlia Frances Bean, soprattutto scuse ai milioni di fan che si aspettavano da lui qualcosa che non sarebbe più riuscito a dare. Indirizzata a Boddah, l’amico immaginario del piccolo Kurt, che mai l’aveva abbandonato dall’età di sette anni, fedele compagno e anche capro espiatorio di qualsiasi cosa fosse accusato in casa. “Non sono stato io, è stato Boddah”, ripeteva Kurt, bambino troppo vispo, eccessivamente su di giri secondo i genitori che a un certo punto andarono dal medico per fargli prescrivere una cura di Ritalin, un anfetaminico che avrebbe dovuto tamponare le intemperanze.
Le ultime parole lasciate da Cobain furono: “Quando siamo dietro al palco e le luci si spengono e comincia il rombo maniacale della folla, tutto ciò non ha su di me lo stesso effetto che aveva su Freddie Mercury, che sembrava amare e gustare l'amore e l'adorazione del pubblico, ciò è qualcosa che ammiro e invidio totalmente. Il problema è: non posso ingannarvi. Questo non è semplicemente lontano da voi o da me. Il peggiore crimine che posso pensare è quello di farmi amare dal pubblico, imbrogliandolo”. Prima, aveva scritto anche con disarmante ammissione: “Non provo eccitazione a creare musica, o a leggerla e scriverla da troppi anni ormai”.
Cosa era successo al ragazzo prodigio che nel giro di neppure tre anni, dalla pubblicazione di “Nevermind”, 24 settembre 1991, al suicidio a ventisette anni, era stato capace di riportare il rock a uno stato di primordiale verginità, forza creativa, istinto, melodia, semplicità, diventando il rappresentante di una generazione intera che vagando sperduta nelle metropoli, nelle provincie, nei pub, nelle camerette, durante i pomeriggi dopo scuola aveva trovato il suo suono, la voce, le parole per dire no, ribellarsi e non accettare regole, ipocrisie, decisioni, idee di vita già preconfezionate? Era lui, Kurt, proprio Kurt Cobain di Aberdeen, dove non arrivavano neppure i dischi di punk, e che comprava allo spaccio all’angolo riviste musicali, “Rolling Stone”, ma soprattutto “Creem” perché il formato era più adatto a entrare nella tasca di dietro dei jeans e portarsi dietro le facce feroci, dirompenti, di Iggy Pop e Sid Vicious, e che aveva imparato a strimpellare la chitarra sugli AC/DC e i Led Zeppelin; era proprio lui, Kurt, ad aver cambiato la musica ancora una volta, e con le sue canzoni, e salendo sul palco, ciondolando la testa bionda e grondante di sudore di fronte a un’ovazione crescente di un pubblico che aveva trovato un nuovo Dylan, il menestrello della generazione X e che con le camicie a scacchi aperte su magliette slabbrate imparava a suonare la chitarra partendo proprio dal giro di “Come as you are”, sforzando il dito per un barrè e replicare l’attacco di “Smells like teen spirits”?
Tutto era andato troppo veloce, era successo in una manciata di anni, “Nevermind” che aveva avuto una prima tiratura di 46.250 copie era riuscito addirittura a scalzare dalla vetta dei dischi più venduti “Dangerous” di Michael Jackson. Un colpo al cuore del pop, il grunge, il nuovo punk, definitelo come volete, in realtà sono solo canzoni, e che vendono milioni di copie. Il dio dollaro tira all’amo anche i bambini. Ma quello in copertina era un gioco, uno sberleffo all’industria che non guarda in faccia a niente e nessuno. Invece il bambino vero, il bambino Kurt fuggendo era arrivato lontano, si era inoltrato in alto mare, a governare le grandi onde su una zattera. Per un po’ c’era anche riuscito, se l’era goduta, però qualcosa aveva cominciato ad andare storto, “perché il bello non è che il tremendo al suo inizio”, come scriveva Rilke, e le facce dei manager, delle case discografiche cominciavano a farsi più deformi, voraci, a pretendere ancora concerti e dischi. Avevano trovato la gallina delle uova d’oro, da ogni parte piovevano promesse, strade lastricate, rassicurazioni, ma Kurt già da tempo non credeva alle parole dei grandi. Anzi, non voleva crescere più, avrebbe preferito tornare indietro, fino al ventre materno.
Così quando nel 1993 uscì “In Utero” che all’inizio doveva chiamarsi “I Hate Myself and I Want to Die” – perché si sentiva l’artefice di un grande imbroglio, portato sotto il tendone di un circo, a ballare in un baraccone a spese delle speranze di ragazzini che lo idolatravano – l’unica mossa da fare era un ultimo urlo lanciato con rabbia e schizzi di vomito, di scandalo, derisione, sgranando gli occhi e distorcere ancora di più il suono. Vorrebbe dirgli: eccovi canzoni che non arrivano neppure a due minuti (“Very Ape”, “Tourette’s”) e non danno neppure il tempo al bassista di attaccare il jack nell’amplificatore, proprio come i miei adorati Ramones. Eccovi il mio cuore impacchettato in una scatola (“Heart-Shaped Box”), ma lasciate lo spazio per il mio cordone ombelicale: “Throw down your umbilical noose so / I can climb right back” (“Lanciami il tuo cordone ombelicale, cosicché io possa riarrampicarmi”. Fate passare su Mtv “Rape Me”, provateci. E mandate tutto in classifica, se ci riuscite.
Poche settimane e il disco le scalava portando Kurt a un’altezza da cui era sempre più difficile scendere. Restava un’ultima carta, scioccante. Mettere a nudo la sua musica, spolparla, e due mesi dopo l’uscita di “In Utero”, il 18 novembre del 1993, entrava negli studi di Mtv con la chitarra acustica per capovolgere ogni idea preconcetta e aspettativa che qualcuno poteva ancora affibbiargli. Il bambino giocava a rimpiattino, e vinceva. La forza espressiva era intatta anche con il jack staccato. Eppure la giostra continuava, vorticosa e ormai senza più il divertimento. Quanti giri avrebbe fatto ancora, per quanto tempo?
Al fianco del corpo di Kurt Cobain, morto a ventisette anni, lì a Seattle, c’era un’altra lettera, che non ha mai scritto, e che indicava un futuro che lui non avrebbe mai potuto vivere o immaginare. Che sarebbe andato in una clinica a disintossicarsi, ci sarebbero stati altri due, tre album, un’inevitabile e inaccettabile calo di creatività, un the best a calmare le acque con la casa discografica, cambio di formazione, forse un disco con sovraincisioni elettroniche, o fingere la morte e scappare su un’isola deserta insieme a Elvis e compagnia come immagina lo scrittore francese Beigbeder in “26.900”, credendolo a 34 anni a scrivere canzoni folk con Jimi Hendrix.
Oppure che alla fine cede alle necessità del tempo e deve aprire un profilo Instagram, rilanciando le foto dall’indiscusso sapore revivalistico del ‘92 quando a fine concerto distruggeva la chitarra?
Niente di tutto questo. Perché Kurt Cobain non avrebbe voluto compiere 50 anni, oggi, il 20 febbraio 2017. Perché lui, al mondo degli adulti non ci ha mai voluto credere, figurarsi se voleva diventare come uno di loro. Perché il rock non è un imbroglio.