Jovanotti, un flusso d’entusiasmo a Napoli: “Ragazzi, non sono un guru”
Non c'è ombra di tensione o cruccio negli occhi di Jovanotti, che oggi ha incontrato 450 universitari della Federico II di Napoli, dopo quelli di Milano e Firenze. C'è solo una voglia incredibile di parlare ai ragazzi e di farlo partendo dalle sue esperienze, fregandosene che proprio una di queste sia stata male interpretata scatenando un piccolo putiferio. ‘Io non sono un guru', ‘Io non ho la ricetta magica', ‘I miei non sono per forza consigli unici'. Lo ripete fino allo sfinimento durante le due ore di incontro coi ragazzi in cui, interrogato da loro, dal professore Lello Savonardo e dalla stampa, parla di sé, della sua musica, dei concetti di creatività, contaminazione, radici, citando Miles Davis e parlando di postmodernismo.
‘Non credo nella parola ‘creatività', è abusata, preferisco ‘invenzione', preferisco l'idea di assemblare e creare cose nuove, un po' come succede con l'alfabeto. L'inventore non crea dal nulla, ma mette assieme delle cose già esistenti dando vita a un altro prodotto.
Essere Jovanotti
I ragazzi sono rapiti, e la sua aria tranquilla, la sua fallacia non nascosta, quella voglia di non sembrare quello che per molti è, ovvero qualcuno a cui credere a occhi chiusi, qualcuno che riesce a mettere in parole i sentimenti di molti dei ragazzi che lo seguono e che cantano le sue canzoni (anche mentre gli fanno le domande), lo rendono ancora più quello da cui si allontana. Ne costruisce un'immagine che, suo malgrado, si porta appresso, forse anche perché alla soglia dei 50 anni, sembra ancora, se non un coetaneo, qualcuno che non è lontanissimo da loro. Non può farci molto. È molto concreto quando gli chiedono cosa voglia dire essere Jovanotti. Nessun ammiccamento, nessuna risposta emozionale, niente che strappi l'applauso immediato, ma un ragionamento onesto:
Essere Jovanotti vuol dire avere un progetto artistico, è un'azienda che ha bisogno di lavoro, progettazione, leadership, capacità di prevenire gli errori etc. Ma essere Jovanotti non vuol dire stare a capo di quella azienda, bensì starci dentro.
Il djing, il digitale e Miles Davis
Un po' ti spiazza. Forse qualcuno – e lo dice – se lo aspettava più, come dire, mistico, invece Lorenzo è concreto, non aggira le domande, ammette quando non sa rispondere ma cerca sempre di intercettarne una sfumatura, quella più vicina a sé per dare una risposta. E parla dei suoi anni da dj, di quando non aveva idea di cosa fosse uno strumento e la sua vita era quella di creare delle sequenze prendendo cose già esistenti, parla di Miles David e di quel capolavoro che è ‘Bitches Brew', un lavoro che ridefiniva dei canoni, del significato di autore, inventore. Salta in base alle domande e al suo flusso interno (‘flusso' è una parola che pare apprezzare molto), e così ai ragazzi dice che restare in Italia non è sbagliato, ma è importante anche andarsene a fare un'esperienza all'estero. Poi parla del digitale, di come lo percepisce lui e di come, invece, i giovani che gli sono davanti e i cosiddetti nativi digitali, delle cose positive che ha apportato ma anche del senso d'alienazione che dà uno schermo:
Nei dischi nuovi che ascolto, spesso ho una sensazione alienante. Oggi la si compone davanti a uno schermo, nella propria cameretta. Non più, ad esempio, dopo aver fatto l'amore, essere usciti con gli amici.
Le occasioni non ti vengono a cercare
Cerca il cuore del discorso nell'iperbole, come ha fatto anche ne ‘Il mondo è tuo (stasera)', una frase fatta, di cui è consapevole e di cui si schernisce. Racconta di averci pensato bene al titolo e al messaggio, ma questa, forse, è l'evoluzione del pensare positivo, ovvero del cercare di pensare alla possibilità che la gioventù ti offre, rispetto alle difficoltà che ci sono e sono reali.
Questa frase nasce da uno scoraggiamento che non è affatto immotivato. Ma le società decadenti, però, non vanno da nessuna parte e in quel pezzo ho provato spudoratamente a gridarlo. Le occasioni, insomma, non ti vengono a cercare.
‘Spudoratamente', ancora una giustificazione implicita per ribadire un concetto espresso anche ieri a Firenze.
Alla polemica sul lavoro gratis, che l'ha investito nelle scorse ore, accenna solo rispondendo a una domanda sul suo amore per la radio, dove ha cominciato senza prendere soldi, "ma era un mix di passione ed esperienza":
Poi, ovviamente, dopo quel tipo di esperienze c'è il lavoro ed è un guaio se non vi pagano o se non vi assicurano i vostri diritti. Ma esiste anche un'altra fase.
Pino Daniele e il ritorno allo Stadio San Paolo
Napoli e Pino Daniele non potevano non far parte del suo racconto. Fu proprio quello con Pino Daniele e Eros Ramazzotti ("un concerto industriale, visto che Eros doveva ammortizzare i costi di un tour internazionale e ci si inventò questa formula") il suo primo concerto nello stadio e quello di Pino Daniele, nel 1981, è stato il suo primo concerto a pagamento. Racconta dell'entusiasmo nel sapere che poteva tornare a esibirsi al San Paolo (dove suonerà il prossimo 26 luglio), meravigliandosi di come Napoli non avesse un palazzetto adatto perché "Napoli è una capitale". Definisce una benedizione l'incontro con Pino Daniele, l'unico artista italiano che ascoltava con estremo piacere quando era piccolo ed esterofilo (con il funk, l'hip hop e il punk come fari):
Pino aveva una portata internazionale e non assomigliava alle canzonette di quel momento, che pure comunque ascoltavo, però dicevi: "La musica italiana è Pino". Ci siamo conosciuti in occasione del concerto con Eros, poi mi ha fatto sentire un amico, mi ha aperto casa sua. Mi ascoltava, era interessato a capire che succedeva intorno e io rappresentavo la musica popolare italiana più nuova.
E proprio a Pino dedicherà qualcosa. Non sa ancora cosa, ma sta studiando una piccola sorpresa.
Video e foto: Peppe Pace.