J Lord ha le stimmate della grandezza, in un racconto italiano senza precedenti
Fare le scelte giusta aiuta, essere la persona adatta a compierle ancora di più. J Lord, nome d'arte di Lord Johnson, rappresenta in questo momento la scelta giusta per un intero sistema discografico costretto in una stanza degli specchi, in grado di arricchire con facilità un modello artistico diventato in tanti casi una copia carbone di se stesso, ma che non riesce a essere estrapolato da quel contesto, da quelle immagini, da quei suoni. E allora il giovanissimo rapper campano, classe 2004 di origini ghanesi, diventa oro che luccica, una voce fuori dal coro in ogni suo brano, qualcosa che strizza l'occhio agli Stati Uniti e alle sue immagini, senza estremizzare, alcune volte raccontando con estrema semplicità una realtà che è identificabile, senza scimmiottarla. Ed ecco che arriviamo al secondo punto: J Lord ha bisogno di fare la scelta giusta, di proseguire una serie di passaggi in grado di decodificare il suo linguaggio, il suo immaginario: la presenza del produttore Dat Boi Dee è una rete di salvataggio enorme, ma solo il ragazzo ha il potere di scegliere la sua evoluzione, musicale e personale. Questa musica in Italia non ha più bisogno di cliché, divorata dal mercato prima di essere digerita dal pubblico, e il risultato è evidente: siamo legati a una corrente, senza aver conosciuto il fiume. E J Lord potrebbe essere la riscoperta di antiche rovine, in un sound che inevitabilmente rimane attuale e crudo, un'immagine in bianco e nero in un negozio di giocattoli costosi.
Scostumato e il rapporto con i Co'sang
Cosa differenzia J Lord dagli altri? Se avere una storia da raccontare è già un passo in avanti rispetto ai suoi colleghi, la potenza dell'immaginario del ragazzo è una fiamma in questo momento difficile da assopire. La rabbia, il trasporto dell'autore di "Scostumato", nel fortunato evento che ha toccato il rap italiano con l'avvento di Mace e del suo "Obe", viene rappresentato ciò che J Lord vuol trasmettere: una storia che trascini, che abbia dei tratti identificativi, che abbia dei fondamenti reali anche nella sua spettacolarizzazione. Un rapido esempio: "Giravamo cu na mulletta pe' dint' ‘o bursello, c'allenavamo cu ‘e maiale comm' ‘e siberiane,'o nonno areto ch'alluccava quando sbagliavamo". Un racconto che potrebbe essere parafrasato da "Educazione siberiana" dello scrittore russo Nicolai Lilin, ma che suona terribilmente real, anche senza la necessità di esserlo. Spaventa la semplicità di una realtà così cruda, anche se poco meno di 10 anni fa a cantarla in termini e prospettive differenti c'erano i Co'sang. Spaventa anche la naturalezza di J Lord, in grado di passare dal racconto genitoriale così vivido da empatizzare, alla totale anarchia adolescenziale, alla violenza come tratto identificativo, ma soprattutto al futuro come approdo franco per la propria salvezza.
15, 16 e Kendrick Lamar
J Lord è un fuoco, e come in ogni adolescente che sente mancarsi la terra sotto i piedi, divampa senza aver paura delle latitudini, delle scelte di mercato costruitegli addosso, del prodotto finale che in futuro potrebbe diventare. J Lord è ancora il bambino nel freestyle di "15 (La strada giusta)", che tra video ufficiale e produzione di Dat Boi Dee, ricorda Nas in "Illmatic": non sono solo le sue mosse, ma anche la sua immagine che esplode nello schermo. E allora si va di Rap, ma quello con la lettera maiuscola, anche quando si torna indietro a "Gangster" quando rivolta completamente lo scenario, in un suono ipnotico, in cui l'alternanza di colori e voci cattura lo sguardo. Si parla di Napoli, ma è un racconto dall'alto, in cui i nomi vengono sostituiti dalle immagini, in cui le parole diventano la descrizione di un'esperienza, non il suo giudizio. "16" potrebbe essere considerato il capolavoro di una discografia in questo momento in Italia, immaginiamoci se è solo una delle prime canzoni per un artista di 17 anni. La forza con cui travolge J Lord è sana, come le immagini di un'identificazione che scimmiottiamo, soprattutto negli ultimi anni: la canotta bianca, il durag sulla testa, l'espressione di una multietnicità che condivide e non esclude. E con buona pace di Sofiane, e di tutto ciò che è stato ingurgitato dalla Francia, il primo riferimento di J Lord nel brano sembra arrivare dagli Stati Uniti, West Coast, Los Angeles, precisamente Compton: l'artista cantava "Element", prima di vincere da lì a poco il premio Pulitzer. Quel rapper si chiama Kendrick Lamar, e l'identificazione del quartiere, il simbolismo che trascende la spiritualità e tutti i lati che la deturpano, sono solo alcuni dei tratti del suo racconto. In questo momento potrebbe essere l'augurio più grande da fare a J Lord, sperando mantenga la sua direzione.