Il rap s’è venduto al marketing? No, è solo sopravvivenza
Basta. Non se ne può più della boria dei rapper. Si tratta di un fenomeno pop, nel vero senso della parola, certo, ma di chi è il merito di tutta questa popolarità? Innanzitutto l’Italia anche in questo è in netto ritardo. Può un genere che ha fatto il suo ingresso nel mondo della musica nel 1979, o giù di lì, raggiungere la notorietà 30 anni dopo? Ebbene sì, o almeno è quello che sta accadendo adesso qui. I meriti? Il processo di erosione culturale è stato lento, dunque le responsabilità vanno ripartite. Se inizialmente era la tv di Jovanotti a farlo trionfare, successivamente è stata una questione di politicizzazione, quella legata alla sinistra nel trapasso tra la prima e l’ipotetica seconda Repubblica, a portarlo avanti. Il resto però è una responsabilità degli artisti e di un panorama mediatico cambiato radicalmente, negli ultimi 20 anni.
Mtv, ad esempio, fa il suo ingresso nel Belpaese solo 20 anni fa, ben oltre i tempi europei. Gli Usa sono un’altra cosa. La culla. Lì, discendendo dal blues e dal jazz, ripercorrendo attraverso il freestyle i binari dell’improvvisazione come linea portante, l’hip hop diventa la Cnn degli afroamericani, come da manifesto dei Public Enemy. E poi c’è la semplicità eversiva con la quale i brani vengono prodotti e incisi: tanto immediata da surclassare finanche il punk e le sue approssimazioni, non a caso gli stessi Clash ne fiutano immediatamente il potenziale (ultra)democratico. Qui, tutti questi ingredienti arrivano già forti di un decennio fatto di sperimentazioni ed esperienze. La teoria e la pratica che sono divenute prassi consolidata in sostanza.
A riassumerci il tutto è la voce soul più presente nel rap italiano dell’ultimo ventennio, ovvero Patrick Benifei: “Mi piace molto il rap come tipo di espressione, è un modello di comunicazione base, è molto popolare, nel senso che è accessibile a chiunque, è universale, è partito dal ghetto e poi è diventato di tutti, del resto è un mezzo che ha dato voce a chi non poteva averla, e a chi non aveva i soldi per uno studio di registrazione ha dato un’opportunità alternativa”. Lui, cresciuto all’interno dei Casino Royale distingue anche un collettivo solido del rap italiano attuale: Machete; “Vivono assieme, respirano assieme, hanno un’identità, anche visiva, di gruppo, si scambiano i dischi e dunque gli ascolti, ricordano molto il concetto di band che avevamo noi ai tempi di Sempre più vicino e Crx”. Già, perché la crew è fondamentale nell’hip hop e il gruppo di Salmo mostra di essere parecchio coeso. Dal loro modo di fare e vivere la musica si possono evincere anche almeno un paio di nuove peculiarità attuali della scena. La prima è l’apertura mentale che induce a non relegarsi all’interno di un genere canonico, mischiandolo invece con altro, uno sforzo che viene chiamato dall’industria musicale americana con il nome di crossover già dagli anni 50 e che in Europa è volgarmente associato ad incroci tra chitarre elettriche e rap, riducendone il potenziale meticcio ad un paio di fattori. Sperimentano in sostanza e non solo in un’unica direzione, quelli di Machete. Per farlo hanno affittato un appartamento a Milano, lasciando la Sardegna, e questo è appunto un secondo aspetto basilare della contemporaneità: i rapper italiani si sono trasferiti quasi tutti lì, almeno quelli famosi o discretamente celebri, tanto che il geniale Piotta ha dedicato a questo fenomeno addirittura un ep, giusto un paio di mesi fa. Quello che, inizialmente, era un punto di rottura con il mercato discografico e le dinamiche corporative di questo settore, insomma, ha assunto oggi un ruolo tanto diverso da quello originario da assestarsi negli stessi luoghi dell’industria, camminando a braccetto con le major o almeno con i suoi concetti di marketing, strategie ed organigrammi.
Venduti? Magari: la crisi non concede più i fasti degli anni 70 e 80, dunque è giusto una questione di apprendimento e sopravvivenza. E poi l’hip hop non ha mai nascosto la sua matrice legata al riscatto sociale e addirittura all’agonismo di tipo quasi sportivo, come spiegato eloquentemente da Wallace e Costello, nel loro vecchio saggio intitolato "Il rap spiegato ai bianchi". Oggi che le razze, fortunatamente, non sono poi più così distanti, quindi, è ancora più facile che si possa parlare di una sottocultura mondiale e non di uno stile musicale. C’è da dire, inoltre, sempre facendo riferimento al fortunato periodo che vive il rap in Italia, che non è trascurabile il fattore linguistico, non solo per la bassa propensione al plurilinguismo di noi pigroni del Belpaese, dove neppure i politici transfrontalieri hanno troppa dimestichezza con l’inglese, ma per la questione dei tratti antropologici che in occidente basa il tramandarsi di storie e cultura più sull’oralità che sulla forma scritta, tanto da incoronare la tv ed anche i movimenti forcaioli moderni come quello di Grillo, a scapito di un’industria, quella dei libri e dei giornali, in apparente coma irreversibile, almeno a livello economico.
E, nella Milano della discografia e dell’editoria, questo fardello crea dei mostri al retrogusto di champagne. Quali? Inutile fare nomi, più che altro è indicativo inquadrare il sistema. A ribadircelo è Loop Luna, rapper donna attualmente unica per talento e profondità nel panorama dell’hip hop rosa nostrano; lei non ha dubbi: “Le veline spesso cercano la fama e il successo. Oggi va di moda il rapper e quindi vogliono farsi paparazzare con il rapper di turno. Il rapper di turno che vuole vendere più dischi si fa fotografare per un giornale di gossip con una velina e il gioco è fatto. Non male come marketing. Forse, dovrei trovarmi un tronista e uscire su Chi, così, di sicuro, venderei molto di più”. E con questa regola matematica, che potremmo chiamare “il postulato Signorini” si spiegano tante cose. Eppure un dubbio rimane: tra i mille meriti di questa nuova generazione di hiphopper talentuosi resta però l’ombra di aver sepolto i pionieri che hanno spiegato loro le regole del rap. E un popolo che ignora la sua storia ignora se stesso.