Il “Popclub” di Riki: “È un disco variegato ma di transizione, ancora non so dove andrò”
Dopo tre anni dall'uscita di "Mania", Riki è tornato con il suo ultimo progetto "Popclub" lo scorso 4 settembre. Un album vario che raccoglie tutte le esperienze del giovane artista durante gli ultimi tre anni, dal periodo passato in Sud America alla partecipazione a Sanremo 2020. Un'evoluzione che il cantante racconta come molto faticosa dopo aver conosciuto il successo troppo in fretta. La caduta e la risalita di Riki gli hanno permesso anche di pensare a nuova musica, a melodie che in questo disco vengono racchiuse nel brano "Margot". Il cantante ha confessato i dubbi sulla sua esperienza ad Amici, un programma che gli ha aperto le porte del successo, con un'etichetta però difficile da rimuovere.
Tre anni sono lunghissimi, soprattutto in questo periodo. Com'è andata la costruzione dell’album?
Quello che posso dire è che tre anni sono tanti, è figlio di tante cose che ho vissuto e tante altre che ho voluto descrivere, anche se non le vivevo in prima persona. È un disco di cui sono molto soddisfatto, ma anche di transizione. Vedo tanti pezzi che hanno un tratto cantautorale, ma anche brani che magari strizzano l’occhio a quello che era il mio passato. Di sicuro è un disco molto vario.
Sei un ragazzo intelligente e non te la prenderai. Mi pare un album variegato, a volte troppo: tanti spunti, tante cose, tante terre toccate, ma l’impressione è che tu stia ancora cercando un vestito adatto…
È quello che volevo, una strada che potrei seguire anche in futuro. Nemmeno io so dove andrò, non so quelle che sono le mie potenzialità e quello che posso fare. In realtà non è mai uscita fuori la mia attitudine veramente, forse sta iniziando a venire fuori piano piano da pezzi come “Margot”, “Petali e vocoder” e “Piccole cose”. È chiaro che qui si sentono tante cose belle e anche tante cose che sono completamente diverse l’una dall’altra. Magari per il prossimo disco, su cui ho già un'idea, potrebbe essere più cantautorale. Prenderà spunto da “Margot” come riferimento musicale e andremo dritti su quello. Credo che un disco vario sia un pregio e non un difetto.
La lotta con l’immagine che gli altri hanno di te quanto ha inciso e quanto incide su quello che fai?
Cinque o sei anni fa, alla domanda se avessi voluto fare un talent, avrei risposto di no, perché poi ti dà delle etichette che ti porti appresso per tutta la carriera. Te lo garantisco. Poi però è capitato perché per arrivare al successo, o sei un trapper, o riesci a fare Sanremo Giovani, o riesci ad esplodere dai canali Youtube o dai social. L’ho dovuto fare, anche se poi comunque mi è piaciuto da morire, nel senso che è un’esperienza che ti fa crescere tanto. Riuscirò mai a togliermi l’etichetta, ti rispondo molto probabilmente sì, anche se qualcosa ci sarà sempre. Maria e il suo programma hanno una potenza, arriva a 5 milioni di persone tutti i sabati in un anno intero. È difficile toglierti quella cosa, magari X Factor è già diverso, così come Sanremo.
Le tracklist non sono causali e immagino anche l’apertura con “Margot” e la chiusura con “Petali e vocoder”. Due canzoni particolari, per tematiche, ma anche per forma, con l’ultima che chiude con una sorta di spoken… Ci parli di questi due pezzi?
Ho voluto aprire il disco con “Margot” perché era un pezzo completamente diverso da quelli che avevo fatto prima. Volevo che le persone, se mai avessero voglia di ascoltare il disco, almeno la prima canzone l’avrebbero ascoltata in maniera più interessata. L’ultima invece fa quasi da contrasto a "Margot", anche se stiamo parlando sempre di un pezzo lento. È un brano recitato con tantissime figure ed era adatto per chiudere il disco. Una coda che poi si riallaccia al primo brano.
"Da club" è la quota latin dell’album: ecco, questa mi pare una scelta coraggiosa… Scherzi a parte, quanto è complesso resistere a questa moda?
Ho sperimentato il reggaeton partendo con l'italiano. Mi è piaciuto, ma ora credo che per me, almeno qua in Italia, inizi un altro tipo di percorso. Questo non vuol dire che in futuro non si faccia anche del reggaeton, ma adesso non è tra le mie priorità. Nell'ottica del disco, “Da Club” era il singolo un po’ più urban, ma il disco è molto vario, quindi non mi ha preoccupato.
A volte si parla delle pressioni, di come il successo sia complesso da gestire (ne parlavo mesi fa con Benji e Fede). Quali sono stati gli errori che hai fatto in passato?
Sognavo di fare questo mestiere, come sognavo di fare il designer. Il problema è stata la velocità con cui ho ottenuto le cose, quando mi sono detto: “Ok, adesso è il momento”. Da lì in poi purtroppo è iniziato un frullatore incredibile, fatto di cose molto belle, ma anche di molta solitudine e non lo dico per retorica, lo dico perché è successo davvero. Sbagliare è fondamentale e cadere è forse la cosa più importante che si possa fare nella vita, perché se hai tutto che ti arriva così per scontato, quasi non ti godi quello che hai. La cosa più bella è risalire e godersi le cose poi molto di più, con più consapevolezza.
Sei riuscito a capire cosa non è andato a Sanremo?
Arrivi a Sanremo che devi avere un background nella tua carriera, un certo tipo di passato musicale, oppure devi essere in un momento storico della tua carriera. Se io l’avessi fatto nel 2017 o nel 2018, magari sarebbe andata diversamente. Però lì sono andato anche per provare a prendermi un pubblico più ampio, facendo un’esperienza. Mi servirà, mi è servita e soprattutto e ci vorrò ritornare. Non quest’anno sicuramente, magari neanche l’anno prossimo, però se ho il momento giusto e ci sono tutte le carte in regola, ho voglia di riprovarci.