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Il 18 novembre 1993 i Nirvana registrano lo speciale Unplugged l’urlo di una generazione

Trent’anni fa i Nirvana registravano il loro capolavoro che, pubblicato il 1 novembre 1994, diventerà postumo, lo speciale Unplugged in New York, dopo tre decadi ancora attualissimo. Non il testamento di una generazione ma mi piace pensare che sia la sua più alta espressione.
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Il 18 novembre del 1993 a New York City presso i Sony Music Studios tra la 54esima e la Decima di Manhattan, per le telecamere di Mtv, i Nirvana registrano il loro capolavoro che, pubblicato l'1 novembre 1994, diventerà postumo: lo speciale Unplugged in New York. "Cosa stiamo accordando? Un’arpa? Pensavo fossimo una grande rock band piena di soldi, dovremmo avere un sacco di chitarre", sussurra al microfono Kurt Cobain alla fine di Something in the Way: e in quel bisbiglio c’è tutta la sua intelligenza e il suo sarcasmo, l'insofferenza verso i meccanismi del music business che lo stanno schiacciando, la sua incapacità di adattarsi ad un mondo che lo aveva sempre rifiutato e ora lo idolatra. Un’anima fragile buttata sul palco del mondo all’improvviso, che in due anni assurdi e inaspettati, dal 1991 al 1993, dopo l’incredibile successo di Nevermind, lo avrebbero trasformato in una star planetaria. Il rock, o meglio il grunge, grazie a loro e alla scena di Seattle era tornato a governare la musica mondiale.

Per l'occasione il gruppo (Kurt Cobain alla voce, Krist Novoselic al basso e Dave Grohl alla batteria) fu affiancato dal chitarrista Pat Smear (già turnista durante il tour di In Utero) e dalla violoncellista Lori Goldston, oltre che dai fratelli Curt e Cris Kirkwood dei Meat Puppets, con i quali hanno eseguito tre brani di quest'ultimo gruppo. Ero poco più che un bambino, un quindicenne negli anni '90 in un paesino del sud che vestiva con camice a scacchi (in realtà ancora adesso), cardigan logori (come in questo momento ma ben tenuto e senza buchi perché l’età mi ha reso più moderato) e t-shirt improbabili (vabbè come si potrebbe vivere senza?), quando, il 5 aprile del '94, appresi della morte di Kurt: ero triste e arrabbiato perché non riuscivo a comprendere come fosse possibile che una persona che ai miei occhi aveva tutto potesse decidere di morire di sua spontanea volontà, sparandosi in testa con un fucile. Ho compreso poi, con gli anni e conoscendo le vite degli altri e la mia stessa, che il male di vivere è un male terribile, e c’è poco che riesca a placarlo: Kurt, che per me ragazzino era un gigante, un uomo, ora è rimasto ragazzo per sempre, figlio e voce di una generazione che ha cercato di cambiare il mondo.

E forse è anche per questa sua tragica e prematura scomparsa che quell'Unplugged in New York, che uscirà come loro ultimo disco “inedito”, diventerà il testamento dei Nirvana, di Cobain. Anche se poi non era affatto nelle loro intenzioni, anzi: in quella che fu la produzione dello speciale – difficilissima, a quanto raccontano i testimoni dell’epoca, per le insicurezze della band che non aveva mai suonato in acustico, ma nota, oltre ogni modo, per il loro incredibile “noise” – fu proprio Cobain a volere che nell’allestimento fossero circondati da candele e gigli bianchi “come in un funerale”. E seppure, con lo sguardo di poi, quella frase potrebbe sembrare tristemente premonitrice, in realtà non vi era nulla di tutto ciò.

In quel novembre del 1993, negli studi della Sony, tutti hanno paura che stia per accadere davanti alle telecamere di MTV un enorme fallimento: i Nirvana scelgono pezzi poco noti, cover, non si sono mai esibiti prima in acustico (che vuol dire senza casse, amplificatori, chitarre elettriche), hanno provato sì e no un paio d’ore e fino a poco prima di cominciare Kurt continua a chiedere del pollo fritto: dallo staff ingenuamente gli porteranno delle ali di pollo fritto, lui sorride. Voleva dell’eroina, in gergo pollo fritto. A un’ora dallo show scompare: è andato a farsi una passeggiata con un fan per stare tranquillo, per parlare con una persona normale.

Era questo il male che lo perseguitava: un figlio della working class più disperata, pieno di rabbia e dolore, era diventato uno di quelli che lui detestava, contro cui urlava: un ricco milionario che faceva capricci prima di cominciare un concerto. “Non voglio lo sgabello, voglio una sedia da ufficio”. E l’avrà, bruttina, di quelle girevoli, ma su quella sedia farà una delle esibizioni più belle, memorabili, struggenti che la storia della musica ci abbia mai potuto regalare.

C’è tutto in quello speciale e in quel disco, poi: c’è il dolore di una generazione che non vuole sottomettersi, che vuole cambiare, che vuole urlare e che di lì a pochissimi anni cercherà di farlo in ogni modo possibile, da Seattle, a Praga, passando per Goteborg e fino a Genova. C’è il look di una generazione che dopo trent’anni non ha ancora smesso di vestirsi in quel modo. C’è la volontà di sovvertire e di non piegarsi alle regole del commercio, dello showbiz (li avevano implorati di eseguire le loro hit, ma la risposta fu “sti cazzi” e uno dei concerti più commoventi della storia moderna), del capitalismo globale.

C’è un finale struggente: una canzone che è un urlo di dolore, bellissima, avvolgente, senza lieto fine, ma con tanta rabbia e speranza: Where did you sleep last night, una antica melodia folk statunitense di cui non si conosce neppure il nome dell'autore. E tutti pensavano, come dice Alex Coletti, responsabile numero uno di MTV Unplugged, che il concerto non sarebbe finito lì: “Kurt andò dietro le quinte e io lo spinsi a concedere almeno un bis: s'era parlato di Marigold o di Verse chorus verse, ma lui stoppò subito qualsiasi mia richiesta. ‘No, impossibile: nessun'altra canzone raggiungerà l'intensità di quest'ultima".

Quindi no, non mi piace dire che Unpugged in New York sia il testamento dei Nirvana o di una generazione: mi piace pensare che sia la sua più alta espressione. E dopo trent’anni suona ancora nelle casse da far vibrare l’animo. "Fuck you all, this is the last song in the evening…".

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