Giovanni Truppi, l’alieno della musica italiana: “Questa volta volevo un album variegato”
Ogni volta che Giovanni Truppi pubblica un nuovo album – "Infinite possibilità per esseri finiti" – è un bel momento per la musica italiana. Il cantautore, infatti, è senza dubbio un alieno all'interno del mercato discografico italiano – nonostante Sanremo dove ha portato una canzone molto bella e molto nelle sue corde -, ma proprio questa particolarità lo rende da sempre uno degli artisti più interessanti, in grado di trovare formule nuove per il cantautorato. Lontano dalla ricerca della melodia più giusta per il mercato, ma alla continua ricerca di quella migliore, con un'attenzione quasi morbosa per la parola e la struttura del testo delle canzoni, e una spiccata attitudine politica, Truppi riesce sempre a rendere i propri lavori dei concept che racchiudono interessanti riflessioni sul mondo in cui viviamo, universalizzando la sua condizione. Da una parte ci si lascia attraversare dalle trovate melodiche, dall'altra non si può smettere di ascoltare i testi e comprenderne i meccanismi. Seppur in maniera involontaria, come dice lui stesso, la presenza di figure retoriche che non sembrano mai forzate (anafore, epifore, metafore, elenchi) e strutture che talvolta toccano quelle delle filastrocche e delle ninne nanne – mescolato alla ricerca di ritmo e melodie – è come se riportassero le canzoni alla loro distribuzione originaria, ovvero alla condivisione orale di questi brani. In "Infinite possibilità per essere finiti", poi, c'è un filo rosso che racconta di una ricerca personale, una riflessione continua su temi come la felicità, il privilegio, la genitorialità, ma anche la morte.
Quest’album è ricco di trovate musicali, di parole, del loro uso mai standard e dei loro significati. È un album su cui sembra abbiano influenza la paternità, ma anche da una riflessioni sul privilegio e la felicità. Me ne parli?
Le riflessioni di base somigliano a quelle che hanno sempre accompagnato e fatto da punto di partenza per i miei dischi. Ovviamente ogni volta li declino in maniera diversa, questa volta mi interessava molto fare un album che fosse stilisticamente molto vario, in cui ci fosse tanta parola parlata oltre che parola cantata e anche dei momenti musicali. Questa idea mi ha guidato fin dall'inizio.
Spesso si dice di universalizzare il messaggio, tu lo fai, ma ancorandolo alla geografia e ai suoni di quel paesaggio. Come nasce il lavoro sulla parte musicale con Marco Buccelli e Niccolò Contessa?
La questione della geolocalizzazione è emersa mentre ci lavoravamo: ci siamo resi conto di quanto fosse forte questa connessione delle canzoni del disco con dei luoghi specifici, tanto che per ancorare ancora di più l'album ai posti, abbiamo utilizzato dei soundcase presi soprattutto nel quartiere di Centocelle a Roma. Ancora prima di capire come li avremmo utilizzati ci siamo resi conto che era importante averli e poi, a un certo punto, mentre lavoravamo al disco, assieme a Marco e Niccolò ci siamo trovati a parlare di come il disco fosse molto disomogeneo, vario, frammentato musicalmente, ponendoci il problema se fosse necessario avere un leitmotiv, qualcosa che tenesse tutto insieme e facesse da collante, così ci siamo resi conto che più che una melodia, ciò che doveva esserci come elemento acustico ricorrente, che facesse da trait d'union, dovevano essere il rumore e i suoni della città.
E come ci avete lavorato?
Lo abbiamo fatto in molti modi diversi, nel senso che Marco è negli Usa, Niccolò a Roma e io a Bologna e già questo implicava che ci dovessero essere dei momenti in cui ci separavamo e altri in cui stavamo assieme. Sono successe entrambe le cose, quindi abbiamo lavorato sia singolarmente che tutti insieme o anche io da solo con Niccolò: abbiamo lavorato su idee che avevo e abbiamo sviluppato oppure su idee su cui abbiamo lavorato in grande sinergia, fino a una cosa che non avevo mai sperimentato, ovvero lavorare su delle basi e idee musicali che mi venivano proposte da loro. In due o tre casi le canzoni sono nate da idee che non erano mie ma che ho sviluppato a partire da alcune loro proposte.
È interessante quel "disomogeneo", perché solitamente gli artisti ci tengono all'omogeneità dei propri album. La tua omogeneità risiede molto nella scrittura, no?
Sicuramente c'è tanto lavoro sulla scrittura, anche se è molto poco scientifico. Capisco quello che dici sul fatto che questa cifra linguistica sia un elemento che fa l'unione tra questi brani.
In che modo è cambiata la tua visione della felicità (bilanciata dalla riflessione sulla paura) e del privilegio, molto presente nell'album?
Non c'è nulla di cambiato, alcune di queste cose sono messe a fuoco in maniera più potente innanzitutto dentro di me, prima che artisticamente. Probabilmente viviamo in un momento storico in cui questa cosa del privilegio è emersa più forte come problema all'interno della nostra società e anche le vicende mondiali degli ultimi anni ci hanno portato a riflettere di più su quello che abbiamo, ciò che rischiamo di perdere, ciò che altri non hanno, e tutta una serie di rimossi della nostra società, come la morte, sono riemersi con grande potenza. A proposito della paura, mi sembra normale che si abbia più paura e che quindi una artista questa cosa la possa intercettare e riproporre nel suo lavoro.
Questa attenzione sul privilegio è cresciuto molto anche con il riproporsi di istanze femministe. C'entra anche la nascita di tua figlia?
Sicuramente essere padre di una donna mi fa riflettere di più su certe cose, avendo anche la fortuna di avere una compagna attenta, il rapporto con lei mi ha fatto riflettere di più su certe cose, ma allo stesso tempo mi sembra che nel disco come nella mia vita personale quando rifletto sul privilegio, compresa la mia condizione, il mio primo moto è di rifletterci dal punto di vista sociale più che per la mia condizione di maschio. Questo, probabilmente, anche perché ho una certa età e fino a poco tempo fa la sensibilità su questi temi era molto minore, quindi per formazione e abitudine il mio pensiero va ad altro.
Sei uno degli autori che maggiormente gioca con le strutture della filastrocca…
Quando penso alla filastrocca mi viene in mente una parte infantile di me e della scrittura, quindi giocosa. E il contatto sia con il gioco, sia una parte infantile per me sono abbastanza vitali, quindi è normale che entrino nella scrittura, è una vena che attraversa il mio lavoro da sempre.
Nella parte più spoken si sente un riferimento agli Offlaga Disco Pax, è corretto?
Io sono un loro ammiratore, anche se di queste convergenze me ne sono accorto solo ex post quando alcuni mi hanno fatto notare che si sentiva che mi piacciono. Anche Niccolò è un loro ammiratore e ha lavorato con Enrico Fontanelli; è un'influenza che vedo anche io ed è uno dei motivi per cui ho chiesto a Max Collini (cantante degli ODP, ndr) di partecipare al mio podcast, mi faceva piacere confrontarmi con lui e rendere questo omaggio il più esplicito possibile.
Sanremo ha cambiato qualcosa o è stato una parentesi e basta?
Ha cambiato qualcosa sicuramente, anche come come patente, adesso sono "un cantante che è stato al Festival", in più ci sono andato con una canzone molto specifica, quindi ha avvicinato nuove persone, ma assomigliano comunque molto al pubblico che c'era prima di Sanremo e in questo senso ha cambiato relativamente il mio rapporto col mio lavoro e con chi mi segue. È un'esperienza che mi è piaciuta, però, è stata importante e da un certo punto di vista anche divertente. E fra vent'anni sarebbe anche divertente rifarla.
Come è andata, invece, coi fratelli Eno?
È andata che mi sono innamorato di "Blonde", ci ho scritto un testo sopra e ci siamo detti che sarebbe stato bello poter usare proprio quel brano piuttosto che un sounda-like e quindi abbiamo provato. Questo è anche il bello di poter lavorare con case discografiche grandi come Universal e tramite loro ci siamo messi in contatto coi loro editori e col loro manager, abbiamo mandato la canzone, il testo tradotto e abbiamo avuto questa approvazione.