Non contando la breve fase di apprendistato all'insegna della musica leggera, le più o meno sporadiche deviazioni e qualche divertissement, il quasi mezzo secolo di carriera di Franco Battiato si può dividere in tre periodi. L'ultimo nonché il più lungo, inaugurato nel 1988 con “Fisiognomica”, lo vede attivo con ispirazione e lucidità nell'ambito di una canzone d'autore colta, raffinata e libera dal giogo di schemi troppo rigorosi; il precedente, fra il 1979 e il 1985, fu quello dei successi davvero enormi di album come “La voce del padrone” e “L'arca di Noè”, dove un accattivante synth-pop si legava a testi surreali, enigmatici e a tratti destabilizzanti; quello ancor più datato, protrattosi dall'inizio degli anni Settanta al 1978, ebbe infine come campo di sviluppo un'avanguardia in continuo mutamento, basata sull'elettronica ma aperta a ogni possibile interazione con la psichedelia, il progressive, la classica/contemporanea, l'etno-folk e altro. Un percorso di ricerca inscindibile dallo studio e dal duro lavoro ma sempre propenso ad assecondare l‘istinto, sintetizzato in otto album editi dalla Bla Bla e dalla Ricordi. Dischi coraggiosi e qua e là addirittura alieni, evocativi e assieme disturbanti come gli eccentrici look via via sfoggiati dal loro autore, la cui indole è vicina più all'alchimia che alla scienza nel senso moderno del termine. E dischi che, sorprendentemente ma tutto sommato neppure tanto, riuscirono anche a ritagliarsi – quale più, quale meno – un loro spazio di mercato.
Nel 2001, Franco Battiato mi concesse un intero pomeriggio di intervista per approfondire la sua storia. Una buona ora di illuminante colloquio fu incentrata sulle sue sperimentazioni dei ‘70, riassunte in una serie di 33 giri dai titoli atipici e suggestivi: “Fetus”, “Pollution” (che si affacciò nei Top 10: proprio altri tempi), “Sulle corde di Aries”, “Clic”, “M.lle le Gladiator”, “Battiato”, “Juke Box” e “L‘Egitto prima delle sabbie”. “Quei dischi sono stati molto importanti per me”, mi disse il Maestro riferendosi nello specifico ai primi quattro, “ma non riesco bene a valutarli così come molti, dall’esterno, li considerano. All’epoca io e altri del mio stesso mondo vedevamo la musica come qualcosa di superiore: ciò che avviene sopra di te e che ti condiziona è qualcosa che appartiene ad altre sfere, non sei realmente tu. Dopo ‘Clic’ si aprì quella che, a mio avviso, è la parte più interessante della mia carriera, cioè quella dello studio acustico dell’avanguardia. Avanguardia come stato dell’anima, non come qualcosa di tecnico: ricerca di diversi livelli di percezione e non semplicemente di suoni nuovi. È lo stato interiore che dev’essere all’avanguardia”. Affermazioni che “Joe Patti‘s Experimental Group”, l'album a quattro mani con il fedelissimo produttore/tecnico del suono Pino “Pinaxa” Pischetola atteso a giorni con il marchio della Universal, si guarda bene dallo smentire. Non potrebbe essere altrimenti, visto come il progetto si riallacci direttamente, nella forma e nello spirito, a quel passato, in un avvolgente e fascinoso intreccio di novità e rivisitazioni creative, di citazioni implicite ed esplicite che i “battiatiani“ più esperti si divertiranno molto a cercare di identificare; citazioni che, tuttavia, non si fermano agli anni ‘70, come il celebre verso “le pareti del cervello non hanno più finestre” rubato a “New Frontiers” (un brano del 1982) ed emblematicamente inserito nella “Leoncavallo” d'apertura. Del resto, benché si presti a essere schematizzata in “ere”, l'opera dell'artista siciliano è in fondo da considerare un unicum, quantomeno nel continuo rincorrersi/intrecciarsi di vari elementi-chiave. In primis, quell'afflato misticheggiante che permea i quaranta minuti, frazionati in undici tracce, di questo inatteso omaggio alle radici del Battiato odierno, e il ruolo più che secondario delle parole. “In quel periodo i testi avevano importanza minima”, mi fu spiegato ancora nel 2001, “il loro significato era essenzialmente simbolico ed erano come un tema chiuso: difatti, molte delle mie canzoni avevano una strofa o due e poi dieci minuti di musica”.
Quanti conoscono gli otto 33 giri del 1972-1978 ritroveranno in “Joe Patti‘s Experimental Group” le stesse atmosfere e lo stesso approccio fra tecnologia e primitivismo. Non è escluso che taluni possano storcere la bocca, non fosse altro perché l'avanguardia che si ricicla non è più avanguardia, ma farlo significherebbe aver analizzato il disco da una prospettiva errata. Il Battiato del 2014, infatti, non ha certo velleità innovative, e a spingerlo a ricalarsi con il senno di poi – specie per quanto concerne la resa sonora, adesso molto più efficace – nei suoi panni giovanili è stato probabilmente il desiderio di celebrare le fondamenta del suo presente. Forse con un pizzico di nostalgia ma anche, ci piace crederlo, con l'obiettivo di utilizzare la sua attuale fama per rendere più popolare una musica tradizionalmente di nicchia. Musica che nei mesi scorsi ha già portato (e presto riporterà) dal vivo con eccellenti riscontri: ben altro clima, insomma, rispetto a quattro decenni fa, quando in tanti non lo comprendevano e spesso lo dileggiavano. Arrivasse un primato in classifica, benché con i miseri numeri del mercato attuale, Battiato se la riderebbe di sicuro sotto i baffi che non ha.