Avevo sedici anni quando nel 1976 arrivò nei negozi “Via Paolo Fabbri 43”, che di Francesco Guccini era il sesto LP e che oggi è generalmente considerato il suo principale classico, grossomodo alla pari con il quarto “Radici”; in quei giorni ero già un gucciniano DOC, attratto per lo più – anche se non me ne rendevo bene conto – dalla sua rara capacità di giocare con la lingua italiana: azzeccatissimo quel “burattinaio di parole” con cui quasi due decenni dopo si sarebbe definito. Fra i miei compagni di ascolti girava la leggenda che l’indirizzo bolognese del titolo del disco fosse quello della casa del musicista, e quando si scoprì che non si trattava di leggenda bensì di verità, accarezzai per lungo tempo il pensiero di salire su un treno e andare a bussare a quella porta; idea poco originale, me ne rendo conto, che non fu concretizzata per due ragioni: il timore di non trovare nessuno, buttando così via denaro che avrei potuto investire meglio in sacro vinile, e la difficoltà di convincere almeno un amico a unirsi all’impresa. Il sogno adolescenziale si sarebbe poi realizzato nel 2001, quando Francesco Guccini indicò proprio Via Paolo Fabbri 43 come luogo per un’intervista-fiume; quel pomeriggio trascorso a chiacchierare con il Maestro è uno dei ricordi più preziosi della mia carriera di scribacchino musicale, che conservo gelosamente.
Tre anni e quattro giorni fa, Guccini ha pubblicato il suo ultimo album. “Ultimo” proprio nel senso che, ha dichiarato ufficialmente e quindi c’è da credergli, non ne farà altri, così come non farà più concerti: per vari motivi, meglio la parola scritta di quella cantata, meglio concentrarsi sulla carriera letteraria – che in questi giorni si è arricchita di un nuovo capitolo edito dalla Mondadori, l’antologia di racconti “Un matrimonio, un funerale, per non parlare del gatto” – che arrovellarsi ancora nel formato ridotto della canzone e affaticarsi sui palchi. Ok, adesso gli anni sono settantacinque, ma se dovessero venir fuori altri pezzi, senza l’assillo di doverli comporre (assillo che il Nostro non ha peraltro mai avuto: i suoi dischi sono sempre usciti solo quando lui ne aveva voglia), perché non registrarli e immetterli sul mercato, evitando di presentarli dal vivo? Per la conoscenza che ho di Guccini, comunque, non confido in un ripensamento; sono certissimo che gli eventuali nuovi brani verrebbero chiusi in cassaforte, nascondendo a tutti la loro esistenza, perché se si intitola un disco “L’ultima Thule”, disco che per di più si conclude con una canzone esplicita come l’omonima, sarebbe delittuoso rovinare con un dietrofront l’apparato evocativo-suggestivo-concettuale legato a tale scelta. E Guccini, è lecito ritenere, non vorrebbe mai farlo, specie dopo aver escogitato un addio così d’effetto.
Intanto, esattamente tre anni dopo “L’ultima Thule”, il 27 novembre è giunto nei negozi “Se io avessi previsto tutto questo”, ricchissima antologia disponibile in un cofanetto “deluxe” di quattro CD e in uno “super deluxe” addirittura di dieci compact. Confezionato con il supporto dello stesso Guccini, che ha scritto note di commento alle canzoni e – si ipotizza – ha preso parte al lavoro di cernita, è opera decisamente singolare, destinata in linea di massima alla platea dei fan. Non è una “integrale” di quanto contenuto nei sedici album di studio, ma offre in compenso un’ampia panoramica di incisioni live e una selezione di quindici “collaborazioni e rarità” che ovviamente – figuriamoci! – non recupera proprio tutti gli episodi diffusi fuori dalla produzione standard (ne mancano solo alcuni ed è un vero peccato: non si poteva compiere un minimo sforzo in più?). A parte questo, da gucciniano DOC quale, come già detto, mi vanto di essere, apprezzo la riesumazione dei due inediti assoluti, peraltro in sé non epocali (“Allora il mondo finirà”, scarto di “Folk Beat n.1” del 1967, e “L’osteria dei poeti”, catturato nel 1974 al Folkstudio di Roma), e plaudo al materiale in concerto (quindici o sessanta pezzi, a seconda dell’edizione), ma non riesco a scacciare dalla mente qualche perplessità, a partire da quella relativa al senso di raccogliere – nella “super deluxe” – addirittura settantatré delle centoventi tracce degli LP di cui sopra, per di più disponendole in ordine sparso (casuale?). E si finisce quindi, purtroppo, sui soliti discorsi: “furbizie” commerciali e scarso rispetto per storia, arte e pubblico pagante. Aggiungerei poi che l’ascolto in sequenza delle “rarità” in origine disseminate su compilation e album di altri artisti risulta meno soddisfacente del previsto: se presi singolarmente i brani risultano “simpatici”, ma una volta collocati uno dietro l’altro perdono nel complesso parecchio. In conclusione? Nonostante la quantità di cose belle presenti nei quattro CD live, il box più costoso indispone per l’eccesso di incisioni di studio arcinote e presumibilmente già acquistate, mentre il più economico – riservato, in teoria, a chi il Maestro non lo conosce quasi – risulta “strano” e magari persino un po’ fuorviante (per via delle “collaborazioni e rarità”, in primis). Insomma, per l’ennesima volta mi ritrovo a chiedermi “ma… perché?”, senza sapermi dare una risposta. O, meglio, rafforzato nel convincimento che la discografia (italiana, ma non solo) concepisce il lavoro sul catalogo come René Ferretti, in parte costretto dalle contingenze, svolgeva il suo nella regia. Se non capite cosa intendo, vuol dire che non avete mai visto la serie TV “Boris”: vi consiglio caldamente di rimediare.