Francesco Bianconi, dai Baustelle a Forever: “Non sono più quello che hanno dipinto in questi anni”
Dal Sussidiario Illustrato della giovinezza, album d'esordio dei Baustelle, sono passati ormai 20 anni. Vent'anni in cui Francesco Bianconi è diventato una delle voci più caratteristiche del cantautorato pop italiano, personaggio che divide, che gioca anche con alcune contraddizioni, e con un ego che non ha paura di definire "smisurato". "Forever" è il suo primo album da solista, un lavoro in cui si getta nella mischia senza la corazza della band, mettendosi a nudo nel vero senso della parola, giocando con il sui sé nei testi, confrontandosi con un produttore esterno, ovvero Amedeo Pace dei Blonde Redhead, e sperimentando anche con un nuovo modo di comporre e scrivere. Lo ha fatto attorniandosi di musicisti come i pianisti Michele Fedrigotti e Thomas Bartlett che si alternano nell'esecuzione dei brani, il Quartetto Balanescu ensemble agli archi e soprattutto affidando alcuni brani ad altre voci come quelle di RufusWainwright, Eleanor Friedberger, Kazu Makino (dei Blonde Redhead) e Hindi Zahra.
Dopo due album estremamente pop, Bianconi ha scelto sonorità più oniriche, che hanno gli archi e il piano in primo piano, ma soprattutto la sua voce, con un timbro ormai noto e un andamento che a volte spezza il gioco metrico della melodia, forzando le regole. È un album che comunque resta bianconiano, qualcosa che ci si poteva aspettare e che i tre singoli avevano presentato perfettamente, ma resta un'opera che se ne frega totalmente delle regole radiofoniche e delle classifiche, un po' come successe quando i Baustelle pubblicarono "Fantasma", rompendo un po' le regole del loro gioco e sorpassando a destra le aspettative del pubblico.
In Colombo cantavi: "La logica spietata del profitto o chissà cosa ci fa figli dell'impero culturale occidentale", ne "Il liberismo ha i giorni contati" cantavate (Rachele, in particolare): "È difficile resistere al mercato, amore mio, di conseguenza andiamo in cerca di Rivoluzioni e vena artistica", qui ci sono i cantanti che ucciderebbero per apparire in un programma in televisione dove i discografici morti della Warner, dеlla Universal e della Sony, poi gli pubblicano la canzonе". Quello del Capitalismo, del mercato è un argomento che mi pare sentire molto tuo, no?
Hai fatto delle citazioni giuste e ti sei accorto del fatto che faccio un mestiere molto vicino all'apparire e al vendere, non solo dischi. Una volta cantavo "Vendo dischi in questo modo orrendo": io lo faccio ed è l'unica cosa che so fare, ho un ego smisurato e ucciderei, come certi cantanti, per apparire. Però è una cosa che ritorna perché ne ho coscienza, ne soffro un po', ma non credo di essere l'unico, è una riflessione non solo sul Capitalismo, che è solo la parte economica del problema, ma ha un raggio più ampio: è una questione dell'essere umano, dell'essere umano che ha pietà della propria miseria.
Come arrivi a fare pace con queste cose: criticare questo mercato pur essendoci dentro e nutrendolo. Ti trovi a fronteggiare anche un senso di colpa o no?
Io mi sento anche un po' in colpa, diciamo, però, che non è che mi uccide, al momento, ma ce l'ho. Secondo me è un bene averlo, mi piace quando l'uomo prova un po' pietà di sé, anche perché, forse per contrasto, lo sento maggiormente in un'epoca come questa in cui è tutto molto improntato a questo senso di spacconaggine, questa sorta di esuberanza mostrata, in cui si appare in una maniera sfrontata, anche parlando del mio mestiere. Ci sono addirittura dei generi improntati sulla poetica del mostrare quanti dischi vendi o quante visualizzazioni fai. Ecco, non mi appartiene, capisco i motivi per cui nelle canzoni si parla anche di questo, capisco i motivi per cui c'è stato un periodo, qualche anno fa, in cui le case discografiche riponevano tutta la loro fiducia ed energia in programmi televisivi, talent show, capisco tutti i motivi, ma non posso dire che va bene così e che mi piace. Tra l'altro stavolta ho detto una cosa che non voleva essere soltanto sulle case discografiche ma più su un sistema unico in cui se deve essere l'unico modello io non mi riconosco, ma i più responsabili sono i cantanti.
"Forever" nasce anche da quest'ego smisurato di cui parlavi prima? Non dover scendere più a mediazioni con la band e la voglia di assumersi la responsabilità totale delle cose?
Sicuramente c'è una parte anche di questo, lo stare in una band per certi versi è una grande cosa, ha tanti vantaggi: si è un gruppo di persone cooperante, la band serve anche da schermo, per mascherarti – perché a volte serve anche per quello, quando non si ha la forza per sostenere tutto -, ma credo che questa necessità di prendere una sorta di fermo biologico, di ossigenazione non l'abbia provata soltanto io. L'ossigeno deriva dal fatto che, nonostante andasse tutto bene, mi sentivo di dover dire qualcosa da solo. Certo, anche senza dover rendere conto agli altri, prendendo decisioni da solo, ed effettivamente è così, l'ho provato per la prima volta, e c'è tutta un'abilità di manovra facilitata, è innegabile.
Tra l'altro venivi da un doppio lavoro molto pop. In giro ho letto di un album "scarno", però, onestamente, non mi pare la prima cosa che viene in mente ascoltandolo, anzi è un album pieno. "Scarno" mi pare una riduzione di un lavoro dietro che c'è e si sente.
Secondo me non è scarno in generale, è scarno, diretto, essenziale, più il mio modo di raccontare. Scarno nel senso che è scevro da artifici retorici, ci sono meno giochini linguistici, in quel senso lì. Dal punto di vista musicale è semplicemente un disco in cui non c'è la sezione ritmica, in cui ci sono più o meno sempre gli stessi strumenti, ovvero la voce, un pianoforte e un quartetto d'archi, però è un disco complesso, è comunque arrangiato, super studiato, non è una cosa suonata in una stanza piano e voce, non scarno, è comunque un disco che ha il rigore della classica.
Anche negli arrangiamenti degli archi c'è la tua mano, giusto?
Sì, in genere sono fatti da me o in collaborazione con Enrico Gabrielli e Michele Fedrigotti e poi Balanescu ha rielaborato, riscritto, ma tendenzialmente hanno sempre tenuto la mia scrittura, l'hanno perfezionata.
Quindi, il Francesco di "Non lo dire mai a nessuno che Francesco cerca il bene" sei tu, giusto?
È un modo per rivendicare con violenza il mio essere diverso – e torniamo all'apparenza – dal Francesco che a volte appare o dal Francesco che è apparso fino a un certo punto. Tutto questo Bianconi come grande profeta del nichilismo e del cinismo non è vera o, per lo meno, lo sono stato ma non lo sono più, sono molto stanco dell'Occidente ripiegato su se stesso che è generatore della Cultura del nichilismo e del cinismo di massa, della distruzione, della disperazione e della disillusione, per cui sto aspettando una risposta di pensiero, cerco un pensiero nuovo. Francesco cerca il bene è come quando canto "so che son venuto dalla fica e lì voglio tornare", in questo disco ti rivelo una cosa, cerco di dire una cosa in ogni canzone.
"Go!" mi pare la più redheadiana delle canzoni, come ti sei ritrovato a lavorare con Amedeo Pace?
Lo è perché era il pezzo scritto per Kazu ancor prima di incontrare Amedeo. Insomma, devi sapere che avevo progettato questo disco pensando che ne sarei stato, così come successo da un po' di tempo coi Baustelle, anche il produttore artistico, avevo l'idea di chiamare voci ospiti e una di quelle voci era Kazu, io sono super fan dei Blonde Redhead da sempre, credo si senta anche in alcune cose dei Baustelle. Poi è successo che il mio management, che lo è anche dei Blonde Redhead per l'Italia, mi ha detto che Amedeo e Simone hanno ancora una sorella a Milano, ogni tanto vengono a trovarla, Mentre era tutto ancora in fase embrionale – pur avendo cominciato a scrivere delle canzoni – mi dissero "dovresti incontrare Amedeo, perché è in Italia e siete molto simili", per cui lo incontro, parliamo, gli racconto questa idea di fare un disco da solo gli spiego chi sono i Baustelle. Lui ritorna a New York gli mando le canzoni, lui rimane colpito e a quel punto non so dirti neanche come è andata precisamente, ma la settimana dopo io gli ho chiesto se gli andasse di produrlo, e lui mi ha detto sì, anche se è una cosa che non aveva mai fatto.
Avete lavorato di persona all'album?
Sì, lui è tornato in Italia, abbiamo lavorato fianco a fianco e sono molto contento perché è vero che abbiamo molte cose in comune: gusto e anche sensibilità, siamo diventati molto amici, quasi un fratello, ed è stato fondamentale perché io che sono un precisino, avendo un altro me fuori da me, sono riuscito ad andare un po' fuori controllo. A volte il produttore artistico può essere una figura ingombrante, invece Amedeo è stato importante, e ora che è a New York mi manca.
Senti, la struttura delle canzoni cambia, ci sono pezzi più classici, altri senza ritornelli, mentre dal punto di vista metrico a volte pare che la forzi perché l'urgenza di dire le cose in quel modo è più forte della struttura. Non credo che sia cambiato molto rispetto ai Baustelle, ma mi racconti però un po' come le hai scritte queste canzoni?
In realtà è cambiato il metodo di scrittura e quando ti dicevo ‘andare fuori controllo' è anche quello. Coi Baustelle scrivo la musica, scriviamo la musica, la melodia e solo dopo scriviamo le parole, le quali si piegano sempre a quelle gabbie che la melodia ha disegnato, invece stavolta no, sono cose nate insieme. Per esempio, "Certi uomini" è stata scritta abbastanza di getto, in poco tempo, ci sono altre canzoni, invece, in cui è nata prima la musica ma in cui il testo è nato di getto e poi ha modificato delle cose della musica. Ci sono dei momenti in cui volevo dire delle cose e me ne sono fregato della metrica. O anche solo potersi prendere il lusso di fregarsene della struttura e delle regole auree della forma canzone, per cui è cambiato un po' il metodo, è un disco più libero, sperimentale dal punto di vista della scrittura.
Una curiosità, partendo anche dalla presenza di Michele Fedrigotti: quando canti "Proteggerti dal male, dal freddo e dalla gente" in "Andante" o "All’armi patrioti", in Zuma Beach – e sono sicuro di aver perso dei passaggi -, pensavi a Franco Battiato o è un caso?
Guarda, ti giuro che quando ho scritto "Proteggerti etc" non pensavo a Battiato, mentre per quanto riguarda la cosa di "All'armi patrioti", ci ho pensato immediatamente dopo, ma non mentre la scrivevo: c'era questo quadretto all'interno di Zuma Beach che era molto americano, da guerra di secessione, me lo richiamava un po' la musica, l'ho sempre pensata come una grande placida melodia americana, soprattutto quella prima parte, e mi veniva in mente una sorta di America bruciata dopo una battaglia della Secessione. Per me quell'espressione era un collegarmi a quel mondo lì, poi ho pensato che tutti avrebbero detto Battiato, ma ti giuro che è involontario. Comunque questo significa che quel famoso periodo di vita dall'81 in poi, quando per sei sette anni ho ascoltato ossessivamente quasi solo Battiato ha generato qualcosa.
Senti, invece come nasce quella versione completamente riarrangiata di "Playa" di Baby K in Storie inventate? Sembra quasi la dimostrazione che la musica ci frega, a volte.
Sono molto contento, anche perché quando l'ho pubblicata ha generato grande dibattito sulla forma e la sostanza, una cosa pazzesca, dialoghi sul senso, etc. Quella versione nasce mentre ero al mare con mia figlia che l'ascoltava assieme ad altre hit. Questa, però, mi ha colpito da subito, mi ha colpito la melodia, ma anche qualcosa del testo, c'era qualcosa che mi ha subito intrigato. Me la sono sempre immaginata dimezzata di tempo, una ballad, e l'immaginavo con quelle parole un po' in sospeso, i grandi tappeti di tastiere, senza ritmica, come se la cantasse Wayne Coyne dei Flaming Lips. Mi dicevo sempre: "Prima o poi vorrei provare una versione, poi, sai, dice delle cose…", insomma, mi dava gioia, ma proprio quella gioia che ti fa venire quasi da piangere per la commozione, lo struggimento della vita, e quasi mi spaventava, tant'è che mi sono detto: ‘Voglio provare'.
E così è finita in Storie inventate…
Sì, quando abbiamo creato il programma "Storie inventate" mettendo insieme una collezione di canzoni, mi sono detto che in fin dei conti anche "Playa" mi era piaciuta e così un pomeriggio mi sono messo con Angelo Trabace al pianoforte, gliel'ho suonata in quel modo, gliela cantavo come se fosse "Imagine" di Lennon, lui ha detto che era bellissima e ho fatto qualche piccola sostituzione armonica: la genialata di quel pezzo è che sono tre accordi in cui si alternano melodie tutte killer, è un continuo gancio ciclico. In quel famoso dibattito tra forma e sostanza, di cui ti parlavo, c'era chi diceva che quella cover dimostrava che ‘basta lo stile', che un pezzo può anche far schifo ma se la fai con stile cambia tutto. Io non sono del tutto d'accordo, per me qualcosa, un po' di sostanza, deve averla e – faccio un complimento agli autori – quella canzone ce l'ha. C'è qualcosa che mi ha messo in moto per fare questa mia operazione stilistica, ad altre cose non sarei riuscito ad agganciarmi; quella canzone dice ‘Ho bisogno di te in questo mare" che è qualcosa che se tagli e metti su un foglio bianco è poetica.
Baby K l'ha sentita?
Che io sappia no, però quel post ha avuto un successo pazzesco, ho avuto la sensazione come se avesse pescato delle persone che solitamente non sono nella mia cerchia di ascoltatori.
Come ti senti quando guardi all’inizio della tua carriera? Sei di quelli che rifarebbe diversamente qualcosa, ti ci rivedi, con fastidio, tenerezza?
Sono più in pace, ovviamente non mi ascolto mai, ma se mi capita di ascoltare per caso, nonostante non mi ci riconosca e ci trovi un sacco di difetti rispetto a prima, sono sereno, come se fosse un caso risolto. C'è stato un periodo in cui ascoltavo e dicevo che schifo, poi un periodo in cui mi facevo tenerezza, adesso non mi faccio né schifo né tenerezza, semplicemente ti dici che eri diverso, continui a non ascoltarti ma almeno sei in pace.