Filippo Graziani, da Sanremo al Tenco: “Noi, cantautori famosi, poco conosciuti”
Sanremo e il Tenco, ovvero il palco più popolare d'Italia e il riconoscimento ufficiale per ogni cantautore. Filippo Graziani li ha entrambi e forse con un album alle spalle e un altro da registrare, la sua vita artistica è un po' rimasta stretta tra questi due mondi, quello mainstream dell'Ariston e quello più indie del Tenco, in un'alternanza che invece di dargli la notorietà che meriterebbe e che si è conquistato sul campo lo relega in quel limbo per cui si è troppo popolare per la "scena" indie e troppo indie per quella mainstream: "Ma sono sicuro che tornerà un momento in cui la classe media potrà dire la sua e dovranno venire a pescare da noi" dice sorridendo. La prende sportivamente il cantante che un paio di anni fa mescolò il cantautorato all'elettronica dando vita a "Le cose belle", album d'esordio a cui a breve ne seguirà uno che "sarà un disco più compatto" con un'attenzione ancora maggiore alle parole, che assieme al ritmo sono una delle fissazioni di Graziani, cresciuto a pane e hip hop e pian piano apertosi alle contaminazioni più varie. In questo periodo, intanto, è molto attento alla musica nord europea, un filone molto vivo, soprattutto per quel che riguarda il folk, ma anche il pop e l'elettronica non sono da poco con una scena che è molto cresciuta in questi ultimi anni, grazie ad artisti ormai consolidati come Sigur Ros e Bjork, ma anche con new entry come Asgeir, Ólafur Arnalds e gli Hjaltalín.
Graziani, poi, parte con l'handicap di dover convivere con un cognome ingombrante, che gli viene e gli verrà ricordato ad ogni passo che farà, ma invece di gettarselo alle spalle, lui lo omaggia e ribadisce l'importanza del padre Ivan, che nell'ottobre di quest'anno avrebbe compiuto 70 anni. Un musicista sui generis, la cui musica, solo col tempo, è riuscita a ottenere il riconoscimento che meritava: "Mio padre non era inquadrabile e come tutte le cose poco inquadrabili è molto complicato che arrivi il successo istantaneo, ci vuole un po' di tempo, ci vogliono anni, quando il flusso della moda se ne va".
Filippo, “Le cose belle” è stato molto importante per te, ma siamo alla fine del suo percorso. Cosa resta del viaggio fatto con lui?
Innanzitutto è stato il disco del mio esordio cantautorale, ance se non è proprio nel solco della tradizione classica. Diciamo che per me è stato una grande soddisfazione, anche perché mi son portato a casa anche il Premio Tenco e di più non avrei potuto chiedere. Sono contento che sia stato recepito bene e spero di aver convinto.
Ti ha portato Sanremo e ti ha dato il Premio Tenco. Quanto vale per un esordiente come te un riconoscimento del genere e che spinta dà?
Il Tenco è sicuramente un momento di riconoscimento di un lavoro, un percorso, e sicuramente la cosa importante è quello. È un premio dato dai giornalisti, quindi l'ho visto come una pacca sulla spalla, come a dire: ‘Sei sulla strada giusta, vai avanti e fai quello che devi fare'. Poi è ovvio che nel periodo in cui viviamo adesso è difficile avere dei ritorni materiali sulle cose che succedono; è sempre un periodo di forte crisi, soprattutto per la musica, dove per quelli che scelgono le vie antiche c'è bisogno di impegnarsi il doppio e andare avanti sapendo che c'è qualcuno che pensa che stai facendo bene.
Hai esordito tardi, per quelli che sono i tempi di oggi. Prima facevi altro, suonavi altro, hai attraversato altri generi. Come mai ti sei preso tutto questo tempo? E soprattutto cosa ti resta delle tue radici musicali?
Tutte le cose che ho fatto, il periodo newyorkese, lo stoner e tutto il mio excursus musicale, sono tutte cose che rimangono nel mio bagaglio personale e non è detto che non ci siano delle sferzate di colore di queste cose che ho poi fatto mie.
Sicuramente c'è un lato elettronico che ti piace e si sente nell'album.
Assolutamente. Dell'hip hop m'è rimasto l'essere certosino per quello che riguarda le ritmiche, quell'impronta di drum&bass che dà quella sorta di rotolamento al pezzo, però diciamo che sono tutte cose che ho nel bagagliaio e sicuramente nel disco nuovo ci saranno spruzzate di queste mie reminiscenze. Continuerò sulla strada dell'elettronica unito al folk così da dare il mio stampino.
Ascoltando “Cervello” (pezzo presente nell'album d'esordio, ndr) ho pensato a te e Diodato, a due cantautori di talento, fruibili a un livello mainstream che però sono difficilmente inquadrabili nella scena musicale (passami il termine) odierna.
Penso che il problema non sia più musicale, è un discorso di riconoscibilità televisiva, nel senso che più stai in televisione più sei presente e più hai possibilità di arrivare a delle sacche di ascoltatori e compratori diversi.
Però non esistono programmi musicali in tv, forse vale più per le radio. La musica in tv è il talent.
Mi riferivo proprio a quello. Bisognerebbe fare un talent all'anno per stare in determinate situazioni, ma non è quello il mio percorso, né quello di Antonio. Noi stiamo cercando di andare avanti e di portare avanti un discorso musicale innanzitutto, poi è ovvio che se le radio fossero un po' più aperte a passare progetti nuovi o che non arrivano dal discorso televisivo, dal reality, sicuramente ci sarebbe per noi la possibilità di andare avanti. Sono gli spazi che scarseggiano, in questo periodo è difficile trovare il proprio sedile, ma bisogna andare avanti. Io sono al secondo disco, quindi diciamo che questa avventura è cominciata da poco.
Cosa ti ha dato Sanremo, sia a livello personale, di esperienza, che in termini di visibilità?
Io penso che sia una questione scolastica: pare che uno dice ‘Ho fatto Sanremo, sono un cantante, ho vinto un Tenco, allora sono un cantautore'. È come prendersi il diploma da una parte e il master dall'altra. Son cose che devi fare, momenti che attraversi, che secondo me nella vita di un musicista sono fondamentali. Il Festival è stato un momento di grande crescita dal punto di vista del darmi un senso logico all'interno del panorama musicale italiano, benché non è più il Sanremo di una volta, quello che ti cambia la vita, ti dà la possibilità di avere un tipo di riconoscibilità che dura quello che dura, perché sai che la riconoscibilità è una cosa, la fama è un'altra. Ti dà la possibilità di ricavarti il tuo piccolo spazio, di dire la tua in quel momento e poi diciamo che poi sta a te, nella qualità del lavoro che hai fatto. La torta è piccola e quando hai lka possibilità devi sfruttarla.
Qualche giorno fa hai scritto: “Si torna in studio”. A che punto sei col nuovo album? Cosa dobbiamo aspettarci?
“Le cose belle”, siccome l'ho scritto in tanti anni, ha un'unica anima ma molto eterogenea, si passa per colori diversi. Il secondo disco sarà un disco più compatto, ho già finito di scriverlo, devo cominciare a registrarlo ed è sicuramente un disco che avrà un'anima più solida e diciamo che mi sono più concentrato a scrivere delle canzoni, piuttosto che fare un disco dove fare quello che sapevo fare. Mi voglio concedere un disco in cui concentrarmi sulle canzoni, in maniera molto fluida e quindi sarà elettronico, con tanta chitarra acustica.
Quando uscirà?
Non ne ho idea. Vorrei che uscisse per l'estate, perché vorrei andarlo a suonare.
Cosa hai ascoltato mentre lo scrivevi?
Rimesso ad ascoltare tanto hip hop vecchio e poi tantissima musica nord europea, dalla Svezia, Islanda, mi sono concentrato molto sul nord.
Più Asgeir o più Sigur Ros, insomma versate più folk o elettronico?
Guarda Asgeir è un cantautore che ho molto a mente nei miei ultimi ascolti, ma ancheSohn, per esempio.
A volte pare fastidioso chiedere a chi ha avuto un padre che è un pilastro della musica italiana qualcosa su di lui. Tu, però, non te ne sei mai distaccato e lo hai omaggiato. Non voglio la lacrima, ma vorrei sapere da te qual è il suo contributo alla musica italiana e perché ci ha messo un po' ad essere riconosciuto per quello che oggi è.
Guarda credo che sia un problema classico quando hai a che fare con un personaggio che in quel momento non ha una bandiera. Mio padre scriveva e suonava esattamente quello che gli pareva. Soprattutto quando uscì, poi, era auspicabile, preferibile, avere un orientamento politico, per quanto riguarda i testi, ad esempio. Mio padre è stata l'unica figura di chitarrista rocker che scriveva delle canzoni d'autore: penso a Rory Gallagher, quei personaggi che sono dei chitarristi ma scrivono delle cose, quindi da quel punto di vista mio padre era un caso a parte, a sé. Non era inquadrabile e come tutte le cose poco inquadrabili è molto complicato che arrivi il successo istantaneo, ci vuole un po' di tempo, ci vogliono anni, quando il flusso della moda se ne va. Io penso che ci siano due tipi di autori, quelli platealmente osannati e quelli che sono riconosciuti e nel cuore di chi il mestiere lo fa. Io spero di appartenere alla seconda, che è quella a cui apparteneva mio padre. Sai cosa, io, Antonio (Diodato, ndr), siamo tipo i cantautori famosi che però non conosce nessuno, siamo famosissimi ma non lo sa nessuno.
È paradossale, certo, insomma non siete addentro a una certa scena indipendente, ma non riconosciuti dal mainstream. Insomma, gli indipendente vi vedono più mainstream, il mainstream vi vede indipendenti e in pratica siete sulla linea di mezzo…
Guarda a me da un certo punto di vista mi viene da dire: se siamo quelli di mezzo vediamo di creare la scena di mezzo. Però è vero, al mainstream ancora non ci siamo arrivati e il cantautorato alternativo sembra che sia quasi più di moda del mainstream. Già il fatto che siamo stati a Sanremo ci squalifica. Io sono sicuro che tornerà un momento in cui la classe media potrà dire la sua e dovranno venire a pescare da noi.