“Il mare d’inverno” e “Quello che le donne non dicono” sono brani che più o meno tutti conoscono, sebbene – forse – più nelle interpretazioni di (rispettivamente) Loredana Bertè e Fiorella Mannoia; ambedue sono firmate da Enrico Ruggeri, la prima da solo e la seconda assieme a Luigi Schiavone, da ben trentacinque anni suo chitarrista e spesso coautore. Meno note, ma comunque famose, sono inoltre “Polvere”, “Nuovo swing”, “Anna e il freddo che ha”, “Mistero”, “Gimondi e il Cannibale”… e parecchie altre, che a tutti sarà di sicuro capitato di ascoltare varie volte, completano un songbook davvero ricco, che legittima l’inserimento del musicista milanese, cinquantanove anni compiuti il 5 giugno scorso, tra i songwriter italiani più prolifici dagli ’80 a oggi. E ciò fa sì che all’eventuale domanda “chi è Enrico Ruggeri?” mi verrebbe automatico rispondere, prima che “un cantante”, “uno che sa scrivere canzoni”. Poi, naturale, è anche di un cantante che si sta parlando, dotato di una voce magnetica e riconoscibilissima benché non allineata ai canoni classici della bellezza, ma dove Ruggeri ha una marcia in più è nel comporre; specie per quanto concerne i testi, forti di un linguaggio ricercato ma non altezzoso e capaci di spaziare tra argomenti molto diversi, compresi quelli impegnati. Tali requisiti non sono bastati a renderlo una stella di prima grandezza nel nostro panorama “popular”, a dispetto dei due Sanremo vinti quando il Festival contava ancora qualcosa a livello di numeri (1987 e 1993), ma gli hanno senza dubbio regalato una buona visibilità, assieme alla conduzione di programmi televisivi (soprattutto su Italia 1) e al ruolo di giudice ricoperto nella quarta stagione di X Factor; nonché della trentina di album a suo nome finora pubblicati, delle centinaia di concerti dove ha mostrato doti di performer ed entertainer singolari ma efficaci, di una mezza dozzina fra romanzi e raccolte di racconti e poesie. E insomma, non ha senso negarlo: il Nostro è pure un “workaholic”, un drogato di lavoro.
L’imponente discografia in proprio di Enrico Ruggeri, dopo la rapida, intensa avventura alla guida dei Decibel (due LP: uno filo-punk piuttosto oscuro e uno meno spigoloso, “Vivo da re”, quello dell’hit “Contessa”), gettò le sue fondamenta proprio di questi tempi nel 1981, con le registrazioni dello “Champagne Molotov” uscito in novembre anticipato del vivace singolo “Señorita”: stile che strizza l’occhio alla new wave e al rock decadente, copertina in tema dove il titolare indossa i panni di un improbabile “teppista chic” e inforca quegli occhialoni bianchi che furono a lungo il suo marchio DOC. Rimase un articolo abbastanza a sé, quel primo 33 giri prodotto dalla piccola etichetta SIF, perché a brevissimo Ruggeri imboccò strade più ammiccanti al mercato di massa, non rinnegando peraltro la sua inusualità e la sua volontà di mischiare le carte. Sono convinto che nella prima metà degli ’80 Enrico avrebbe potuto realizzare album ben più “alieni” e “avanti”, che oggi sarebbero magari collocati nello stesso scaffale di Litfiba, Diaframma e CCCP Fedeli alla linea; non ebbe il coraggio di osare sul serio e provò, sotto l’egida della CGD, a costruire il sue successo su strategie musicali meno complicate e arrangiamenti sempre molto addomesticati, confezionando in ogni caso lavori di pregio – “Tutto scorre” del 1985 lo zenit – all’insegna di un genere definibile come “pop-rock d’autore”. Come già precisato, gli andò bene, ma al di là dei numerosi altri convincenti brani aggiunti al carnet e delle aperture via via sperimentate, da almeno quindici anni la sensazione è che, almeno nel campo della creatività pura, il meglio sia stato già espresso, e che la carriera proceda per inerzia; da un lato reiterando i soliti, frusti cliché, e dall’altro sottoponendo quasi ossessivamente a revisione ampi stralci del repertorio storico e recente. Dal 2004 di “Punk prima di te”, Ruggeri ha commercializzato addirittura tredici (!) dischi, fra i quali due doppi e due tripli; non scendo nei dettagli perché occorrerebbe troppo spazio e vi tedierei più di quanto non stia già facendo (se interessati, consiglio le esaurienti schede di Wikipedia), ma la sequenza comprende, oltre a opere effettivamente nuove, “autocover” a iosa, riletture di pezzi altrui (da David Bowie a Charles Aznavour passando per i Bee Gees), un album in due versioni, una colonna sonora, un “autotributo” al quale prende parte un’infinità di ospiti e persino un’inquietante antologia di canzoni natalizie. Sì, chi sta pensando “ma è un casino!” ha ragione al cento per cento.
Mica lo so, perché Enrico Ruggeri gestisce la sua attività in modo tanto atipico. Me lo sono chiesto ma non ho trovato risposte, così come mi sono chiesto se si renda conto fino in fondo di quanto certi suoi comportamenti siano bizzarri. Suppongo lo faccia perché può e gli va, perché si diverte, perché vuole compiacere la sua fanbase più affezionata. Boh. Mi interesserebbe, però, rivolgergli gli interrogativi che mi girano per la testa ed è possibile che presto o tardi accadrà, anche correndo il rischio di essere mandato in quel posto affollatissimo che sarebbe scurrile menzionare qui; del resto, lui è stato punk prima di noi tutti, e se c’è da inalberare un dito medio è difficile che lo tenga abbassato. A parte gli scherzi, i trentacinque anni del Ruggeri solista sono stati un bell’ottovolante e non mi dolgo di esserne stato testimone oculare (e “auricolare”), nonostante gli inevitabili passi falsi e il disappunto per la politica del “freno a mano tirato” cui accennavo righe sopra. Per il futuro non mi attendo chissà quali sorprese eclatanti, ma continuerò a sperarci perché l’ottimismo è il sale della vita e hai visto mai. Pensaci, Enrico.