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Elio racconta Jannacci a teatro: “Sapeva far ridere e piangere, solo i giganti ci riescono”

Intervista a Elio, che arriva a Napoli con “Ci vuole orecchio”, spettacolo dedicato a Enzo Jannacci, un grande mai capito fino in fondo proprio per la sua inclinazione all’originalità e la tendenza a mischiare risata e dramma: “È stato anche il motivo per cui non viene inserito nel gotha dei grandi cantautori italiani”.
A cura di Andrea Parrella
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Elio arriva a Napoli con Enzo Jannacci, anzi ci torna. Il suo Ci vuole orecchio, spettacolo dedicato alla carriera del cantautore milanese scomparso nel 2013 sta girando l'Italia e il 2, 3 e 4 dicembre va in scena proprio a Napoli, al Teatro Cilea. La sponda partenopea era stata già toccata in occasione del Napoli Teatro Festival, la scorsa estate, ora questo esperimento a metà strada tra concerto, reading e teatro canzone ripropone la storia di un artista la cui grandezza è in parte ancora da scoprire, cosa che Stefano Belisari, in arte Elio, tenta du fare proprio attraverso questo spettacolo. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Questa operazione vuole dichiaratamente “non essere un omaggio”. È una retorica che Jannacci avrebbe rifiutato?

Più che altro sottolineare che non si trattasse di un omaggio serviva a dire che questo è il tentativo di raccontare Jannacci in modo personale. Ha a che fare anche con la selezione delle canzoni, si fosse trattato di un omaggio avremmo cantato solo quelle più celebri, mentre abbiamo provato a raccontare il suo percorso di carriera andando a pescare sia dalla prima fase più surreale e assurda, quella della collaborazione con Dario Fò e delle canzoni in milanese, forse la più rappresentativa, poi da una fase centrale, quella del grande successo commerciale.

La locandina dello spettacolo "Ci vuole orecchio"
La locandina dello spettacolo "Ci vuole orecchio"

Jannacci è stato appunto emblema dell'essere milanese. Crede che questo legame forte a un territorio specifico abbia limitato la percezione della sua grandezza?

Fortuntamente no, anche se questo dubbio c’era anche da parte mia prima di iniziare lo spettacolo. Siamo in giro da un anno e mezzo, abbiamo visitato tantissimi posti  sia al sud che al centro ed è andato benissimo. Cosa che mi rende felice perché io ho sempre pensato che il fatto di considerare Jannacci solo milanese fosse un errore e anche uno svantaggio. Potrebbe apparire un paragone irrispettoso, ma sarebbe come considerare Totò napoletano e basta, mentre è un patrimonio nazionale. Poi è chiaro che la sua lingua sia quello e il suo terreno di crescita è quello, però è stato in grado di parlare a tutti. Cosa che credo Jannacci fosse in grado di fare, senza volerlo per forza paragonare a Totò.

Jannacci, pur essendo tra gli artisti più prolifici della sua generazione, è sempre parso in qualche modo inafferrabile nella possibilità di essere spiegato. Come è costruito questo spettacolo?

Jannacci non ha lasciato testi per il teatro e io, dopo aver fatto lo spettacolo di Gaber “Il Grigio”, ho chiesto allo stesso Giorgio Gallione (regista e drammaturgo dei due spettacoli, ndr) di accontentarmi. Si è inventato qualcosa da zero, perché non esiste nulla di o su Jannacci. La forma è quella di concerto, con canzoni intervallate da testi che io leggo scritti da persone legate a lui, da Michele Serra a Umberto Eco.

Lei che rapporto aveva con Jannacci?

Io sono cresciuto ascoltandolo, mio padre era in classe con lui al liceo, quindi ne ho sentito parlare sempre, c’erano i suoi dischi in casa sin da quando ero bambino. Questo mi toglie tutta una possibile paura di non essere all’altezza o difficoltà di immedesimazione, anche perché non c’è alcun tentativo di farlo. La mia sensazione è di cantare le canzoni di un amico, quasi un parente, anche se poi nella vita, in realtà, ci siamo incontrati pochissime volte.

Jannacci e Gaber
Jannacci e Gaber

C’è una continuità filosofica tra lei e Jannacci nel guardare alla risata come un antidoto della vita. Il percorso con gli Elio e le storie tese e non solo lo testimonia.

Questo è vero, lo condivido, ed è stato anche il motivo per cui lui non viene mai inserito nel gotha dei grandi cantautori italiani. Quanto alla vicinanza tra me e lui, ammesso che ci sia, l'ho percepita un po' lavorando a questo spettacolo e trovando punti di analogia biografica. Lui laureato in medicina e io in ingegneria, lui diplomato in pianoforte e io in flauto, anche gli interessi extra artistici sono simili. Sicuramente, al di là dei risultati, ci accomuna una ricerca di originalità, di un percorso non rettilineo. Provare a ogni costo, anche quello di fare schifo, cose fuori dal perimetro. Nel suo caso mi pare fosse un tentativo spasmodico, io forse meno però ce l’ho sempre avuto. Ricordo benissimo quando ho iniziato con gli Elio e le storie tese, l’obiettivo era quello di fare qualcosa che non hanno fatto gli altri. Poi uno non ce la fa sempre, ma si prova.

Muoversi nel solco dell'ironia in campo artistico significa, in qualche modo, doversi sempre giustificare?

Dipende quali sono i tuoi obiettivi, uno può anche fregarsene però mi sembra un male tipicamente nostro. L’equazione se fai ridere-non sei credibile in Italia c’è ed è un errore, perché noi abbiamo avuto fior di artisti che sono stati dei giganti in questo. Tutti personaggi nei quali riuscire a distinguere il dramma dalla comicità è difficile.

Cosa invidia a Jannacci?

L'inimitabilità. Anche se devo pensare a una sua ispirazione, non c’era nessuno come lui prima e nemmeno dopo. Poi, appunto, gli invidio moltissimo la capacità di far ridere e far piangere.

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L’ha mai inseguita questa ambivalenza?

È una cosa che io non sono riuscito a fare. Uno degli ultimi pezzi scritto dal gruppo – scritto in realtà da Rocco Tanica senza nostro aiuto – si chiama il Circo discutibile e mi piace moltissimo, però non l’ho fatto io.

È una filosofia che si fa fatica ad accettare, questa della dignità della risata. 

Ma la vita è un insieme delle due cose, né solo tragica, né solo comica. Io ho lavorato per molto tempo con Lina Wertmuller e lei era una teorica di questa idea, tutte le opere si muovevano in quel territorio.

Per quanto continuerete a girare con questo spettacolo?

A quello che dicono coloro che ne hanno in mano le sorti, io posso andare avanti finché voglio. Nel senso che pare stia andando forte, è iniziato per me stesso e cercavo qualcuno che me ne desse modo, ma non pensavo mai di portare in giro uno spettacolo che andasse così bene. Stanno fissando già date per il prossimo anno, poi vedremo se avremo ancora voglia, ma mi sto trovando molto bene con le persone che sono sul palco con me. Tra l’altro una curiosità molto bella è che al sassofono c’è, Sofia Tomellere, una musicista che è nipote del sassofonista di Jannacci, Paolo Tomellere.

A proposito di incroci con Napoli, il batterista di Jannacci era Tullio De Piscopo. Con Beppe Viola concepirono "Quelli che…" mentre erano a tavola in trattoria.

Tullio è un altro fenomeno di Napoli che io adoro. Questa città, a proposito di ciò che dicevamo sui grandi capaci di coniugare comicità e dramma, è stata una fucina inesauribile.

Una delle tante trasformazioni sanremesi (e non solo) di Elio.
Una delle tante trasformazioni sanremesi (e non solo) di Elio.
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