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Edoardo Bennato: gli anni ribelli di un’icona generazionale

L’ultimo album, ‘Pronti a salpare’, costituisce in qualche modo un ritorno, con l’inevitabile senno di poi, alla fase forse più mitica della carriera di Edoardo Bennato. Una buona occasione per rievocarne qualche episodio significativo.
A cura di Federico Guglielmi
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Da una decina di giorni è acquistabile o ascoltabile ovunque il nuovo album di Edoardo Bennato, arrivato cinque anni dopo il precedente. Si intitola “Pronti a salpare”, è il secondo marchiato dalla Universal e, come in qualche modo dichiarato dall’efficace copertina, ripresenta il musicista napoletano nella sua veste più pungentemente critica verso la società nella quale viviamo. Che se la stia anche cavando benino a livello di classifica, seppure con vendite che rispetto a un tempo sono quello che sono, dimostra come la fama di Bennato rimanga tuttora solida, com’è in fondo giusto che sia per un artista che ha fatto la storia della musica italiana e che, al di là dell’inevitabile alternanza di alti (molto alti) e bassi (mai troppo bassi, peraltro) ha sempre seguito la sua strada, senza seguire comode scie e fregandosene se il manto era dissestato o il tracciato tortuoso. “Pronti a salpare” è un disco sicuramente riuscito, dove la genuinità – tanto di ispirazione, quanto di “voglia” – e la necessità di proporre qualcosa di accattivante per la platea di massa trovano il giusto punto d’incontro; e le citazioni esplicite che qua e là affiorano nei versi faranno la gioia dei sostenitori di più vecchia data, quelli che in giorni ormai lontani – nella prima metà dei ‘70 – vedevano in Edoardo Bennato un simbolo, se non addirittura una sorta di faro generazionale.

Fra costoro, a parziale compensazione dell’attuale veneranda età, c’ero anch’io, appena iscritto alle Superiori. Era il 1974 e galeotto fu “I buoni e i cattivi”, scoperto grazie a un compagno di classe e subito amato di un sentimento poi amplificatosi l’anno successivo con la pietra miliare “Io che non sono l’imperatore”. E proprio nel 1975 assistetti a Roma a un concerto di Bennato, in un tendone chiamato Teatro Circo, riuscendo chissà come ad accomodarmi sul palco, lato sinistro, con la Stefania cui non trovai mai il coraggio di rivelare il mio interesse (a quindici anni, non lo nego, ero un bell’imbranato). Lui, Edoardo, era una vera forza della natura, un Bob Dylan in chiave nostrana ma più incazzato, più blues e r’n’r che folk. Beffardo e istrionico, vantava straordinario magnetismo sia quando percuoteva la chitarra, sia quando soffiava in armonica e kazoo, sia – soprattutto – quando cantava con voce splendidamente sgraziata, sostenuto da un impianto musicale nel quale i ritmi ipnotici/ossessivi si intrecciavano con fascinose melodie. E il repertorio? Di grandissimo spessore, con i brani trascinanti ad alternarsi alle ballate d’atmosfera e un vivace impianto testuale dove i momenti più evocativi erano comunque meno numerosi degli attacchi veementi allo status quo e ai suoi colpevoli, come l’allora presidente Giovanni Leone (“Uno buono”) o il Papa (“Affacciati affacciati”). Ironia caustica ma non volgare, quella di Bennato, brillantemente espressa pure in pezzi come “Signor censore”, “Salviamo il salvabile”, “Meno male che adesso non c’è Nerone”, “Ma che bella città”, “in fila per tre”, “Io che non sono l’imperatore”, “Tira a campare”; un leitmotiv già presente nel primo album “Non farti cadere le braccia” del 1973, all’epoca irreperibile nell’edizione originale ma per fortuna ristampato nella collana economica “Orizzonte” della RCA, e ribadito nel 1976 in “La torre di Babele”, altro capolavoro – al quale, più che alla leggenda della Bibbia, si deve il titolo di questa mia rubrica – con il quale Edoardo, allora trentenne, rese ancor più salda la sua posizione nel pantheon del rock/pop nazionale di quattro decenni fa. L’apice dell’ascesa sarebbe stato poi raggiunto con “Burattino senza fili”, geniale rivisitazione in chiave metaforica/moderna di “Pinocchio”, che nel 1977 dell’uscita vendette un milione di copie.

Per una schiera nemmeno tanto esigua di cultori che seguono il Nostro da quando lo seguo io, il “vero” Edoardo Bennato finisce con “La torre di Babele” e quello dopo, benché non disprezzabile, è una cosa diversa. Pur non condividendola perché troppo tagliata con l’accetta, posso comprendere tale visione, figlia di un periodo storico in cui il successo su vasta scala, in certi ambiti, era cartina al tornasole di “svendita” e quindi di sporcizia morale. Come Francesco De Gregori aveva dovuto subire un processo post-concerto dopo le fortune di “Rimmel”, così il Bennato “superstar” – che già prima di diventarlo aveva denunciato alla sua maniera, in “Cantautore”, le storture legate alla percezione del suo ruolo pubblico – era ritenuto in contrasto con quanto da lui predicato nelle canzoni; canzoni che riscuotevano notevoli consensi “a sinistra”, sebbene il Nostro rifiutasse di allinearsi a un pensiero unico e lo dichiarasse in modo esplicito (emblematico il finale di “Arrivano i buoni”, dove al kazoo sono eseguite le arie di Faccetta nera” e “Bandiera rossa”). Inoltre, non si può negare che “Burattino senza fili” evidenziasse, quantomeno per quei giorni di “o bianco o nero”, qualche segno di edulcorazione e di malizia in più, e dunque non ha tutti i torti chi gli attribuisce valore di spartiacque, di punto di svolta. Quello dal 1977 in avanti è l’Edoardo maturo e consapevole, sempre sfacciato ma con più misura, quello del precedente poker di 33 giri immortala il giovane ribelle ancora un po’ selvatico che non sempre, per fortuna, sa trattenere la sua esuberanza e il suo bisogno di mettere alla berlina quello che non gli piaceva. C’è persino chi ha visto in lui una specie di punk ante litteram e tutto sommato, in rapporto all’Italia di allora, non è proprio un’eresia.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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