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David Bowie torna con ‘Blackstar’, il futuro della musica è indicato dalle stelle

Nel giorno del suo 69° compleanno David Bowie pubblica ‘Blackstar’, un album nuovo che segue, ancora una volta, la rotta delle stelle e, come sempre, è un passo avanti a tutti.
A cura di Pier Luigi Razzano
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Le stelle sono indispensabili per il ragazzo che si era perduto nello spazio nel 1969, giratosi a guardare da distanze siderali il “planet heart” così blu e triste, abbandonandolo come si fa con una casa in fiamme, senza che potesse fare qualcosa per mettere ordine tra le macerie. È rimasto sempre lassù, David Bowie, oltre il cielo, dove è usuale la sovversione di consolanti categorie di spazio e tempo, pur essendo ricaduto sulla terra, chiedendosi se ci fosse vita su Marte, reincarnatosi a capo della truppa dei furenti Ragni da Marte, scioccando con quel viso sfigurato da una folgore glam, cantando scheletrico l’apocalisse orwelliana dei cani di diamante o da manichino elegante e rigido in panciotto, camicia bianca, una nuova e sempre decadente epoca tanto simile a Weimar, strozzato dalla cupezza dei tempi che ci vollero ben tre dischi per raccontarli fino in fondo (“Low”, “Heroes”, “Lodger”) più “Scary Monsters”, altro tassello di una perenne grande opera in progress, dove si aggirava nelle vesti di un’afflitto clown stellare.

Nel giorno in cui compie 69 anni, Bowie pubblica “★” (pronunciato “Blackstar”), nuovo album su etichetta Iso/Columbia Records, sette tracce prodotte con il fedele Tony Visconti, già due singoli, l’eponimo “Blackstar” anticipato lo scorso novembre, scelto anche per la sigla della serie tv “The Last Panthers”, e “Lazarus”, track utilizzata per il sequel de “L’uomo che cadde sulla terra”, spettacolo off-Broadway che ha debuttato a NYC in dicembre. Ma numeri e dati anagrafici sono un ininfluente dettaglio per chi come lui ha vissuto milioni di vite con una sola, sconcertato con metamorfosi continue di costume e suono. David Bowie. Non Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Duca Bianco, il detective di inquietudini Nathan Adler. Indossata la maschera, subito se l’è sempre staccata con forza. Ad altri, i terrestri e i mortali, le etichette, la sterile quiete del nome che a poco serve per contenere direzioni infinite, proprio come l’universo.

Semmai qualcuno volesse battezzare nuovamente Bowie, da “★” in poi potrà chiamarlo il “Sacerdote Nero” che a bordo di un’astronave ha sondato le profondità dello spazio fino alla scoperta di un nuovo sistema solare dove giacciono i resti del Maggiore Tom. Chi se non lui, nel video-cortometraggio ipnotico diretto da Johan Renck (regista anche di “Breaking Bad” e “The Walking Dead”), nella tuta spaziale ha di fronte la ragazza con coda di lucertola, in processione in quella terra altrettanto desolata, piena di caos e gente impaurita e tremante?

Bowie ha attraversato gli anni luce per ritrovare sé stesso, si è ricongiunto con l’immagine e l’identità, cancellato il tempo. A 69 anni torna al 1969 (questo non è un caso nella infinita, serrata e stringente cabalistica bowiana), anno della fuga nello spazio con “Space Oddity”, e lo fa con un album che è zampata che straccia, cancella, non accetta ripetizioni. 69 è numero di una nuova vita, segno di ciclicità instancabile, ripiega e gira su se stesso senza fine, rinnovandosi conservando se stesso. Se doveva esserci un nuovo disco, come dopo l’assordante silenzio decennale nel 2013 con “The Next Day” –  pubblicando a sorpresa, sempre nel giorno del suo compleanno, il singolo “Where are we now?”, senza che nessuno sapesse che il genio era di nuovo al lavoro – Bowie non poteva che seguire la direzione più congeniale per la sua visione e libertà di espressione: la rotta delle stelle. Lì dove non ci sono costrizioni, brilli bruciando di coraggio, scrivendo una canzone enigmatica, inafferrabile come lo è “Blackstar”, jazz elettronico per tribalismi di una nuova specie umana, canto gregoriano i cui echi si perdono e ritornano deflagrati dal fondo delle galassie, cori dove il “call and response” del blues si perde in una terra arida e i sassofoni, i bassi gonfi, saturi, le chitarre invisibili sono calpestati per formare un incubo di dieci minuti. Appena credi che la canzone – davvero riduttivo definirla così – possa prendere una direzione, rovescia ogni attesa e aspettativa. Del resto è ciò che Bowie ha richiesto alla sezione ritmica per l’intero “★”. L’astro Mark Guiliana alla batteria, già con Brad Mehldau e Meshell Ndegeocello, il bassista Tim Lefebvre, il chitarrista Ben Monder e Jason Linder alle tastiere (in soli due brani, il fondatore degli LCD Soundsystem James Murphy alle percussioni), tutti di matrice jazz per approcciare a un disco che doveva essere di rock, nuovo rock.

Oggi Bowie ha ancora, sempre 22 anni. Oggi è nel tempo di “Space Oddity”, nel 1969, senza replicare una singola nota già sentita, sfornando un album nel 2016 che non gli serviva per sostenere il conto in banca, da grimaldello per andare in tour o inserire in discografia e ribellarsi a un eventuale dimenticatoio mentre epigoni affannano dietro esperimenti, però quando bussa la tentazione della classifica e delle visualizzazioni si buttano nella facile e occhieggiante sequenza di note e ritornelli jingle.

Se devi fare qualcosa, fai qualcosa di nuovo. Inseguilo e afferralo, è intorno a te. Butta il vestito indossato, va stretto, guardati intorno, ascolta bene ciò che non si sente ancora.

L’intera carriera di Bowie ha seguito quest’andamento. Se tutti volevano Ziggy, lui lo uccideva. Imperversava il glam, meglio il phillysoul, ma per poco, c’era da esplorare senza inibizioni un sound malato, deforme. Allora “Station to Station”, 1976. Anche in quel caso la titletrack sconvolse, durava dieci minuti, si era in piena epoca prog, suite interminabili a fatica rientravano nei 33 giri, e lui lasciava esterrefatti i fan cantando e saltellando, tra ritmi e sequenze mai simili, il ritorno del “Duca Bianco”. Nulla di identico rispetto al precedente.

Oggi il “Sacerdote Nero” giace in un letto di un sanatorio, nel video di “Lazarus”, bendato ma con piccoli bottoni al posto degli occhi che gli servono per orientarsi, canta da crooner nelle tenebre “Look up here, man, I'm in danger / I've got nothing left to lose”. Ovvero se non avverti il pericolo dentro di te, quando non hai nulla da perdere, non trovi la via d’uscita. Lo sapeva già nel 1976 quando a Los Angeles, nel baratro della cocaina, arrivando a pesare 40 chili, non sapendo neppure se fosse più notte e giorno, per scacciare gli spettri entrò in sala di registrazione. Forse è un caso che nel video di “Lazarus”, il Bowie segnato dalle rughe che scrive furiosamente per scacciare le voci dei demoni indossa la stessa tuta a strisce laminate che ritroviamo nel footage di “Station to Station” mentre traccia sul pavimento l’Albero della Vita che nella Cabala rappresenta le leggi dell’Universo? Nulla di identico rispetto al precedente. Eppure l’intera opera di Bowie è una matriosca che conserva (e nasconde) dentro se stessa ciò che è stato. Crescendo ogni volta.

La strada che ha salvato Bowie e gli ha dato nuova vita è di nuovo nella musica, nella batteria secca per scandire il lancinante andirivieni di un’epoca postindustriale in “Tis a Pity She Was a Whore”, presente insieme a “Sue” nel greatest hits dello scorso anno “Nothing has changed”, però in versione alternativa, impastata e incastrata con il sound dell’intero album.

I brani di “★” sono episodi, capitoli, successioni di un’opera unica, solida, che ha nelle singole parti strumentali i personaggi guidati dalla voce e la conduzione di Bowie. Una ballata come “Dollar Days” ha nel sassofono che sbuca e ditteggia messaggi provenienti da un altro mondo fraseggi che rientrano nell’unico filo sonoro lanciato in apertura da “Blackstar”. Non deve quindi stupire la decisione di lanciare un singolo dalla durata di dieci minuti, in barba al mainstream. La dittatura sonora delle nuove produzioni è abbattuta, l’assenza di nuove possibilità che invece ancora abitano nella musica è smentita dalla creazione di un mondo. Cupo, dolente, contraddittorio, da interrogare se si cercano risposte, da attraversare con melodie avvolgenti e mai scontate, come nel capitolo finale, “I Can’t Give Eveything Away”, cullando con le sue ansie che riguardano più il presente che il passato.

E se la copertina di “The Next Day” era segnale eloquente di cancellazione del passato, proprio quello glorioso di “Heroes”, anzi, il volto nascosto era divieto e intimazione dalle celebrazioni, Bowie guarda avanti, non smette di farlo, e per la prima volta nella sua carriera sceglie di non inserire se stesso sulla copertina di un suo album. Il nuovo volto di Bowie e della musica è nella stella nera.

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