Dardust racconta Duality: “Ho preso una pausa dal pop, non volevo più essere onnipresente”
In questi ultimi anni Dario Faini, nelle sue varie vesti (Dardust, DRD, produttore, autore etc) è stata una delle figure più presenti nel panorama musicale italiano. Che lo si vedesse, come al festival di Sanremo dove è stato direttore d'orchestra, o che lo si sentisse "solo", come in tante produzioni del pop italiano. Chi segue la sua carriera oltre il pop, però sa che Faini è uno dei protagonisti della scena neoclassica ed elettronica italiana con ottimi riscontri anche a livello internazionale, e che anzi è lì che probabilmente è il nocciolo della sua ricerca artistica, in quella libertà che dà la musica meno mainstream, che permette di sperimentare, ricercare, avere uno spettro ampio che Faini cerca di trovare nuove strade. Quest'anno ha ridotto le sue produzioni pop per lavorare a tanti altri progetti (è stato mastro concertatore della Notte della taranta, per esempio) e chiudere il suo ultimo album firmato dardust, "Duality", un lavoro che si divide in due parti, appunto, una più elettronica e l'altra neoclassica.
Ogni volta che ascolto cose tue mi chiedo: quanti Dardust esistono e come fanno a convivere così pacificamente?
La dualità è qualcosa su cui ho sempre investigato, ho sempre mischiato i due mondi, invece questa volta ho posto un limite: la dualità è un limite, infatti, perché credo di avere veramente tanti colori e tante attitudini diverse, ma è stata anche un'opportunità per andare agli estremi di questi due mondi e capire cosa succedeva. Era un lavoro che non avevo mai fatto prima in maniera così netta, secondo me bisogna estremizzare, per avere una personalità più forte bisogna andare agli estremi, ormai le sfumature sono più difficili da individuare, invece se uno va agli estremi magari riesce a fare qualcosa di più potente.
Quindi sei uno di quelli che ha bisogno di limiti, non del campo aperto in campo aperto?
Se non ti dà dei limiti ci può essere il caos a una certa, quindi a livello stilistico avere dei limiti è importante perché nell'infinitamente piccolo dei due perimetri che ti dai, c'è una libertà infinita dove poter spaziare, insomma il discorso è sempre relativo.
Il progetto nasce già come progetto doppio?
Nasce così dall'inizio. Nell'ultimo tour, quello di Storm and Drugs, il primo atto era romantico, intimista, con tutti i pezzi lenti dove il piano è al centro, mentre il secondo switchava nella parte rave, elettro con il tutto che avveniva, comunque, in una dinamica di crescendo, senza salti improvvisi. Il prossimo tour, invece, deve essere una roba netta, andiamo piano solo, senza niente, secondo atto boom, facciamo il colpo a sorpresa. Da lì, poi, è nata l'idea di un disco che doveva rispecchiare questo salto improvviso.
In un mondo di targhettizzazione del pubblico, ti ritrovi a poter abbracciare vari pubblici e pure un po' a scioccarli, no?
Assolutamente sì, da una parte non mi piacciono le categorie, gli schemi, ciò che va di moda, per me è già qualcosa che da subito deve essere superato, bisogna fare qualcosa di nuovo. Mi piace sempre non creare aspettative o disattenderle.
La vita parallela delle produzioni per il mercato più pop ti permette più libertà per questo tipo di progetti?
Quest'anno ho ridotto molto l'attività da produttore perché visto che tutti gli artisti hanno un loro tracciato devi compromettere un po' la tua visione o trovare un punto di incontro. Da una parte questo è bello perché ti fa crescere, vai in mondi in cui da solo non saresti andato, però quest'anno ho cercato di farne meno possibile, anche perché nel mio percorso come artista ci sono state tante attività: le Olimpiadi, il concerto nel deserto, l'Eurovision, la Notte della Taranta, adesso stiamo programmando il tour, c'è stato il disco… Motivo per cui ho preso un po' di respiro in quella veste, anche per non essere onnipresente, non inflazionare il mio suono, a un certo punto sembrava che ogni mese uscivano brani miei, Sanremo era sempre affollato.
Leggevo che ti prende molto la new wave jazz inglese e che il pop ormai non ti dà più stimoli come ascoltatore: cosa ti dà stimoli, oggi?
Tutte le nuove cose sulle quali non ho mai indagato: sicuramente la scena Cosmic jazz, qualcosa che sia più sognante, il jazz puro a me non ha mai appassionato tantissimo, però il jazz come quello di The comet is coming o Sons of Kemet, quando cioè è contaminato e diventa cosmic jazz, diventa più sognante, più spaziale e psichedelico, lo trovo incredibile.
Quel jazz ha anche una forte componente identitaria, parla molto di radici, è un lato che riesci a declinare a modo tuo o è soprattutto il suono ciò che ti interessa?
Mi interessa l'approccio più sperimentale di improvvisazione, ma che alla fine ha qualcosa di molto contemporaneo e quindi è una tradizione che si evolve, si sposta e diventa popolare in un'altra accezione. Mi piace la tradizione che si evolve e in quel contesto la vedo, così come nella taranta con la pizzica ho cercato di farla evolvere io e portarla nella contemporaneità. Nel disco ci sono degli interventi new Jazz degli Studio Murena nell'accezione più cosmica, in alcuni passaggi ci sono colori che hanno dato più carattere e scheletro al disco e questo che mi è piaciuto molto.
La questione Duality, visto anche il brano Fluid Love, non ha niente a che fare con questioni di genere e binarismo?
Fluid Love è un brano che nel disco che va al di là della dualità. Siamo in un'epoca di contaminazione, integrazione, multiculturalismo, quindi la fluidità era intesa anche in questo senso qua. Fluid Love è un amore fluido per tutto ciò che viene al di là degli schemi e delle categorie.
Questa cosa ci riporta anche al jazz di cui sopra, al concetto di abbattimento di genere e alle radici africane…
Sicuramente ha un fondamento anche sociale e relazionale, emotivo, di personalità, di identità di genere. Ovviamente tutto il discorso è inglobato dentro.
Pensavo avesse una connotazione molto più sociale…
Ma lo ha, lo ha.
Emozione, razionalità, esiste un legame tra la tua laurea in Psicologia e tua musica?
Avere una mappa cognitiva ed emozionale sul lato creativo può orientare ad avere una bussola per muoversi, quindi se si è più coscienti di quello che hai dentro, di quello che puoi esprimere, delle tue strutture emotive e anche razionali, puoi direzionare meglio il lavoro e puoi sviluppare empatia con chi ti ascolta, trovare un linguaggio che sia più o meno accessibile agli altri e sul lato simbolico puoi costruire delle cose.
Ho visto che tra i due pezzi più ascoltati in streaming ci sono "Dono per un addio" e "Inno (Prologo)" che appartengono alla seconda parte, quella pianistica. Ti aspettavi quel riscontro e soprattutto con la differenza di riscontro tra le due parti?
Vedo che la parte elettronica, in streaming, fa più fatica perché è più collegata a una fruizione live quindi sono sicuro che quella dimensione accenderà un po' di più quell'emisfero lì. Il piano solo è una dimensione più intimista, più sognante, che magari ti può accompagnare anche in una fruizione più tranquilla, rilassata e distaccata, per questo viene premiato più quell'aspetto lì. Da una parte è anche un bel segnale, perché è la parte più pura e semplice che è stata fatta e mi fa capire che quel tipo di onestà, immediatezza emotiva arriva subito. Ovviamente la parte elettronica è più strutturata, più complessa, ha bisogno di una fruizione che è legata a una dimensione club, è normale che un utente sia meno disposto a gestirsela nella quotidianità.
Sei stato uno dei protagonisti del cambiamento musicale di questi anni, quali sono stati quelli principali, guardando questo mondo dall’interno?
Sicuramente c'è stata la trap che è stata un cambiamento importantissimo, perché ha rivoluzionato un po' la cultura popolare e quei colori hanno rimodernizzato il pop italiano nelle sue varie accezioni. Poi c'è stato un rimodernariato del pop dal versante urban ma anche da altri mondi elettronici, quindi c'è stata una seconda veste nel pop. Il terzo movimento game changer è stato il ritorno della chitarra, di un approccio più ruvido, più rock, che ha cambiato per l'ennesima volta la Bestia del pop italiano. Negli ultimi dieci anni sono stati questi tre highlight che hanno un po' cambiato questo mondo.
Di questo enorme cambiamento, qualcosa resta ma qualcosa si perde: cosa si è perso?
Mi sembra che la scena elettronica – e parlo del contesto più pop -, si sia un po' arenata, come se non abbia sentito quella cosa così rivoluzionaria che può cambiare le cose. Ma perché è difficile proprio trovarla. In generale credo che il pop, al di là di questi colori più rock che sono arrivati, sia in una fase di stasi che può portare al prossimo cambiamento che potrebbe essere imprevedibile e imprevisto. Quindi è sempre un'onda che si alza, tocca un picco massimo per poi avere un po' di stasi e poi ridecollare. Siamo in attesa del prossimo picco.
Nel progetto Dardust c’è sempre uno sguardo oltre i confini nazionali, che risposte hai avuto in questi anni?
Ogni volta che ho fatto live davanti a pubblici che non mi conoscevano, all'estero, il test è stato sempre positivo, incredibile e questa è la miccia che mi ha fatto capire che avevo tanto da dire fuori.
Ma è vero che vuoi trasferirti all'estero?
Il fatto di andare all'estero non è tanto la questione del trasferirsi, ma di andare in altri luoghi a capire cosa succede in altre scene, a catturare nuovi colori, perché in questi anni della pandemia ci hanno un po' tappato il cervello. In un modo o nell'altro ci hanno costretto a stare nello stesso posto, non avere più stimoli. Quella è un'opportunità da una parte perché meno stimolato sei e più ovviamente puoi scoprire colori immaginandoli, perché è anche quello un esercizio, dall'altra parte un po' quella cosa finisce, si esaurisce, poi devi uscire di nuovo e tornare a viaggiare. È quello che voglio fare assolutamente.
Si sente questa cosa che sei sempre un po' stretto…
Conta che ogni disco l'ho fatto sempre viaggiando. Questo è stato il primo disco che ho fatto a Milano ma pensando al Giappone e sognandomelo. L'idea del viaggio è sempre fondamentale, quel bisogno di contaminarsi, trovare nuovi approcci.