Da Jovanotti ai Club Dogo, dove nasce il rap italiano da classifica
Il tempo è ciclico. Lo cantava Neffa aspettando il sole ed è adattissimo a questi tempi, soprattutto dopo una settimana temporalesca in giugno. Il fenomeno è comunque piovuto in classifica molto dopo, anzi all’epoca qualcuno, vedendo il binomio con Giuliano Palma, pensava fossero i Neffa. Eppure era l’era d’oro del rap italiano. Eppure, sebbene siano voci di corridoio, pare che Jovanotti volesse comprare quella hit invece che lasciare che fosse cantata dall’autore Giovanni Pellino. È un pettegolezzo, certo, ma più che a fare polemica serve ad introdurre quello che, tra torti e ragioni, è il fenomeno di punta del rap italiano all’inizio: Lorenzo Cherubini. È stato lui il primo a fare successo grazie a quel linguaggio tanto diverso dal cantato tradizionale, almeno in Italia.
In un libro di Michele Monina si ipotizza che il vero precursore sia stato Celentano, ma forse era più un potenziale suocero vanitoso che un molleggiato seminale anche nell’arte di mettere le rime a tempo. Fatto sta che "Walking" e "Gimme five" sono stati i primi due singoli di rap made in Italy dei quali si è parlato fuori dall’ambiente hip hop. Il merito, più che per il valore della produzione o del testo, è però di una sapiente azione discografica. Poco importa se Jovanotti, prima di comparire in video, fosse sovrappeso e se a farlo dimagrire sia stato lo sviluppo o il suo manager: l’importante è che ha bucato lo schermo. Da allora è cambiata la musica e sono cambiati i mass media ma non certi meccanismi: vogliamo forse negare che Tiziano Ferro sia stato lanciato dopo una dieta, come dire, ferrea? Oppure che le case discografiche milionarie siano ancora imperanti e che tutte abbiano sede a Milano? Non si vuole condannare il marketing in questa sede, tantomeno i professionisti del settore, ma capire perché il rap italiano sia oggi un fenomeno tanto diffuso da contendersi i primati nazionali con il cantautorato, costretto a doversi rinnovare da più fronti per tenere il passo oltretutto.
Il tempo è ciclico, si diceva, e, se negli ’80 è Jovanotti ad introdurre il rap nel pop, nei ’90 spuntano fuori gli Articolo 31. Il loro primo album alterna pezzi impegnati come "Fotti la censura" a quel famoso pennello che è riuscito a tinteggiare di rosa e di scandalo la politica italiana nella “nuova” Repubblica. E se il tema sessuale, oltre ad essere un classico della black music, è dovuto alla capacità di raccontare una realtà senza filtro propria del rap, i brani impegnati in quel periodo erano praticamente obbligatori: non si può negare che a riportare l’hip hop sotto i riflettori in quel decennio siano state le Posse, figlie del movimento studentesco e dell’impegno sociale; tant’è che prima di allora Jovanotti non aveva mai mostrato interesse per la politica, per Cuba o per la world music. Comunque, se non fosse stato per J-Ax e Dj Jad il potere contrattuale e mediatico dei rap avrebbe corso il rischio di restare patrimonio della sinistra extraparlamentare. Non a caso è proprio in quell’era che l’hip hop arriva a Sanremo. C’era già stato, in verità, il solito Lorenzo, con la sua moto, ma senza portare con sé le istanze di alcun movimento internazionale, mentre i Sottotono sul palco dell’Ariston arrivavano come testimonial di una cultura e identificati con una certa trasgressione, dovuta al riecheggiare del gangsta rap americano quanto delle feste dell’Unità, sebbene non lo siano affatto o almeno non in quella sede; però, avvalorando questa tesi, reagiscono sputando contro un Tapiro che gli viene attribuito per il fatto di aver copiato una melodia, mentre, in questo 2014, Frankie Hi-Nrg gareggia, sullo stesso palco e senza alcuna obiezione, neppure da parte della giuria di qualità, utilizzando ritmi e armonie di un classico del reggae mai passato di moda in Giamaica e nel mondo fin dagli anni ’70.
Perché? Per una volta, si spera, più che le raccomandazioni care al Belpaese, il merito è di un lento processo di erosione culturale che ha trasformato definitivamente il rap in un’acquisizione del pop anche in Italia, oltretutto scevro dai pregiudizi musicali e sociologici che lo avevano accompagnato. Del resto Rocco Hunt vince meritatamente tra le nuove proposte. Nu juorno buono. Finalmente viene premiato un giovane talentuoso che si cimenta con un genere vecchio ormai di 40 anni. Un po’ come Renzi. Perché l’hip hop si rinnova ma non perde la sua peculiarità principale, ovvero il rappresentare la realtà dalla quale attinge. Chi contesta l’ostentazione di sesso e droga, di materialismo e vanità dei Club Dogo, ad esempio, non comprende come invece siano lo specchio di una società che fa le stesse cose e tiene i medesimi comportamenti anche a palazzo Chigi e nelle altre stanze dei bottoni senza poterlo sbandierare apertamente però. Viva la sincerità. O si preferisce la diplomazia? In politica forse sì, ma nell’hip hop è diverso ed è per questo che conquista sempre più pubblico: per non avere nulla sulla bocca se non una nuova rima contundente. Nessun cerotto se non per le ferite che si è autoinferto in un percorso di trasformazione inarrestabile, sebbene il tempo sia sempre ciclico e alcune dinamiche discografiche restino ancora le stesse fin degli anni ’50. In fondo, sarà pure solo rock’n’roll ma continua a piacerci.