Essere figli d’arte, specie nello stesso ambito dei propri genitori, dà di sicuro dei vantaggi ma può essere una bella fregatura, e infatti parecchio spesso lo è. Ne sa qualcosa Cristiano, professione cantautore, la cui storia è stata ed è tuttora segnata dall’imponenza della figura paterna: nel bene, per l’attenzione garantita dal cognome altisonante, e nel male, per gli altrettanto inevitabili paragoni. Pormi questioni un po’ futili mi ha sempre divertito e quindi ho provato a mettere le due cose sulla bilancia, ma i piatti sono rimasti, o almeno così mi pare proseguendo a guardarli, in equilibrio: da un lato, l’oggi cinquantatreenne musicista – figlio di Fabrizio e della sua prima moglie, Enrica Rignon – ha avuto opportunità di collaborazioni e promozione che in molti possono solo sognare, dall’altro il suo talento – che c’è, eccome, benché diverso da quello del padre – di rado è stato riconosciuto come meriterebbe. Per carità, nessuno lo considera un bluff: che sia preparato, che sappia scrivere ottime canzoni, che abbia gusto e che vanti una splendida voce (davvero simile a quella del babbo, tra l’altro…), non è mai stato messo in discussione da chicchessia. Il brutto sta nei soliti “ma…” e “però…” che sottintendono la “colpa” di non essere bravo/carismatico ai livelli del genitore, e in qualche caso (velate) “accuse” di essere, in definitiva, un raccomandato, o almeno uno che raccoglie più di quello che avrebbe fatto se si fosse chiamato in altro modo.
Con Cristiano mi è capitato di scambiare due chiacchiere informali in un’unica circostanza e vari anni fa, e dunque evito di lanciarmi in interpretazioni sul come lui abbia vissuto la relazione con “l’ombra” perennemente alle sue spalle. Tutti sanno che, tra alti e bassi, la faccenda non è stata semplice, ma a fornire chiarimenti dettagliati e si spera, pienamente sinceri provvederà ‘La versione di C.', l’autobiografia realizzata con lo scrittore Giuseppe Cristaldi che vedrà la luce per la Mondadori Electa il prossimo 29 aprile; in essa, recita il comunicato stampa, ‘il cantautore racconta per la prima volta il tormentato rapporto con il padre e la famiglia, partendo dall’infanzia e portando alla luce un flusso cronologico di ricordi'. La leggerò con vivo interesse e anche con un pizzico di timore, perché la verità può fare male; qualunque essa sia, però, sarà comunque meglio delle speculazioni, non necessariamente in cattiva fede, che non pochi hanno formulato sullo spinoso argomento. E nelle pagine mi auguro di trovare soprattutto musica, perché continuo a trovare assurdo che il percorso artistico del De André ‘di seconda generazione' sia così tristemente sottovalutato; d’accordo che è stato in fondo piuttosto irregolare e pieno di pause, e che gli album di composizioni originali sono solo sei (Cristiano, come del resto suo padre, è un autore di qualità e non di quantità), ma… accidenti, dei suddetti sei album gli unici in catalogo sono ‘Scaramante' (2001) e l’ultimo ‘Come in cielo, così in guerra' (2014). L’esordio omonimo del 1987 e ‘L’albero della cuccagna' del 1990, entrambi pubblicati dalla Ricordi, e i due marchiati Warner, ovvero ‘Canzoni con il naso lungo' (1992) e ‘Sul confine' (1995), non sono invece reperibili fuori dal giro del collezionismo, e lo stesso problema ha ‘Un giorno nuovo' (Edel), con il brano presentato al Sanremo del 2003 e una selezione in versioni ‘dal vivo in studio' del repertorio precedente. Eppure si tratta di lavori di spessore, con i contributi di fior di professionisti, ricchi di momenti che non dovrebbero essere condannati all’oblio. Mah… valli a capire questi discografici.
C’è poi un altro aspetto non ancora affrontato: “De André canta De André”, il progetto di recupero e riarrangiamento del “songbook” di Fabrizio da parte di Cristiano, che ha la sua dimensione ideale in concerto ed è stato documentato da due CD (con DVD allegato), uno del 2009 e l’altro del 2010. Operazione più che legittima, perché se quelle straordinarie canzoni devono essere eseguite “live” è meglio che a farlo sia il (dotato) figlio di chi le ha rese tali e non solo imitatori e tribute-band più o meno precari, ma se vogliamo un po’ in contrasto con l’obiettivo dell’emancipazione che per Cristiano è parso a lungo prioritario, benché portato avanti in modo mai davvero convinto: si pensi alla scelta, da giovanissimo, di “nascondersi” in un gruppo del quale non era il compositore (i Tempi Duri dell’album “Chiamali Tempi Duri”, AD 1982) ma che era legato all’etichetta dei genitori e che aprì il tour del papà, ai sodalizi creativi con Massimo Bubola e Mauro Pagani, al primo contratto con la Ricordi. Sia come sia, il prossimo 24 giugno si avvierà da Roma, all’Auditorium Parco della Musica, una nuova serie di date di “De André canta De André”, e nonostante il magone – impossibile che la mente non vada alla prematura scomparsa del De André che sarebbe oggi settantaseienne e, si suppone, ancora sui palchi – lo spettacolo sarà certo toccante. Si ha infatti l’impressione che, al di là delle convenienze (che ci sono, inutile negarlo), il secondo De André abbia ormai “fatto pace” con il primo. Ce lo auguriamo, con tutto il cuore, per lui.