Una premessa, onde scongiurare equivoci: benché notoriamente ricchissima, la lingua italiana è forse inidonea a definire in modo compiuto l’estensione del cazzo che me ne frega del successo di J-AX e Fedez; è un po’ come il discorso della vastità del cosmo, che il cervello umano non è in grado di concepire. Comunque, sappiamo tutti bene come i gradini più alti delle classifiche siano da tempo occupati pressoché sempre da musiche prive o quasi prive di spessore artistico, e il problema – che per tanti, comunque, non è affatto tale – si è fortemente accentuato da quando il pop di consumo ha abbandonato del tutto la (pur studiata) semi-artigianalità per divenire prodotto da laboratorio industriale. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, e allora perché curarmene? La mia vita poteva serenamente procedere continuando a legare Fedez all’immagine del ragazzo con mascellone, collo taurino e vistosi tatuaggi e J-Ax al tipo sballato ma simpatico con cui mi ero trovato a chiacchierare per un quarto d’ora nella seconda metà dei ’90 perché mia figlia, che all’epoca aveva dieci anni, voleva tanto incontrare gli Articolo 31 e un papà non dovrebbe mai deludere la sua bambina; mancando la necessità professionale di approfondirle, era sufficiente ascoltare le canzoni di entrambi per farsi un’idea e quindi procedere senza remore all’accantonamento in una zona remota dall’hard-disk mentale. Con “Comunisti col Rolex”, esordio in lungo del duo immesso sul mercato il 20 gennaio scorso a seguire vari singoli di assaggio, è invece andata in maniera diversa. L’ho fatto girare più volte, sia perché qualcuno mi aveva chiesto (con estrema cautela) se avessi avuto voglia di scriverne, sia perché colpito dall’unanimità dei feedback ricevuti da ogni appassionato di musica nel quale mi sono direttamente o indirettamente imbattuto: un vero plebiscito, condensabile in una parola di cinque lettere e di utilizzo molto comune che inizia per “m” e finisce per “a” e, no, non è “mamma” e neppure “mafia”. Inoltre, i fenomeni musicali di grande risonanza sono interessanti – sul piano antropologico e dunque giornalistico – a prescindere, e allora… massì, si proceda.
Giunto al termine del primo giro di queste sedici tracce per quasi un’ora di durata totale, mi sono scoperto percosso e attonito, proprio come la Terra – almeno secondo il Manzoni: Alessandro, non Piero – di fronte all’annuncio della morte di Napoleone. Percosso, attonito e con la domanda – “com’è possibile che questa roba funzioni così tanto?” a ronzarmi nel cervello. Ho allora contattato un collega nonché amico che di certe cose la sa lunga, Emiliano Colasanti, e gli ho rivolto l’interrogativo: "Chi li ascolta, e perché?". La sua risposta, netta, ha arricchito di sfumature negative il termine “deprimente”. "Sono essenzialmente ragazzini e ragazzine. J-Ax, da quando si è legato a Fedez, è diventato 0-12". L’avevo supposto, accantonando però poi l’ipotesi: il solo aspetto “simpatico” del prodotto confezionato dal duo e dal team che lo spalleggia è in qualche linea di testo, nei calembour, nelle battute scontatissime – in quanto lette mille volte in Rete – ma efficaci, esercizi linguistici che per una platea di giovanissimi dovrebbero essere più o meno incomprensibili. Dubito, ad esempio, che un pischello colga il senso di “Volevo ascoltare trap a Miami son finito a fare i selfie con Vieri” (a parte “selfie”, chiaro), che conosca “Basket Case”, Groucho Marx e i Klingon o che sappia anche a grandi linee cosa sia il Comunismo, con o senza Rolex; oltre che su trame “catchy” di rara ovvietà, echi rap più o meno marcati e arrangiamenti al di là del kitsch, l’album si basa infatti su testi stracolmi di citazioni di ogni tipo, una sorta di operazione concettuale messa in atto lavorando con materiali “bassi” e di riciclo. Riferito il mio pensiero al buon Colasanti, ho ricevuto questa puntuale replica. "Sì, in definitiva è un disco di battute, ma è la cifra stilistica di Fedez: lui fa brani così. Guarda, però, che il 90% delle battute sono ‘meme' di Internet, tipo la storia di Vieri o ‘sono giapponese'. Sostanzialmente, sono i luoghi comuni delle pagine Facebook tipo ‘Chiamarsi bomber'… che, infatti, è di Newtopia, l’etichetta di J-Ax e Fedez. I ragazzini campano di queste cose".
Pochi secondi per raccogliere le gonadi rotolate sotto la scrivania e, pago dell’illuminata e illuminante consulenza ricevuta, ritorno a “Comunisti col Rolex” e provo a trarre qualche conclusione, cercando di soffocare il raccapriccio destato dalla parata di ospiti comprendente Stash, Levante, Giusy Ferreri, Sergio Sylvestre, Alessandra Amoroso, Alessia Cara, Nek, Arisa e Loredana Bertè (eccetto l’ultima, che un tempo qualcosa ha contato, una sublimazione dell’irrilevanza artistica: dunque, tutto coerente). In aggiunta a quanto già posto in evidenza, ho rilevato la tendenza a sottolineare – con una retorica probabilmente inevitabile – l’orgoglio di provenire “dalla strada” e gli ascolti di area “alternativa” (“alla cloaca di boy-band”, si sente in “Musica del c***o”, “ho preferito ‘Basket Case’ ed il punk rock dei NOFX”: il punk è naturalmente quello “corporate” dei ’90, ma essere nati troppo tardi per viversi quello vero non può essere una colpa), misto a proclami, che non ho elementi per giudicare come sinceri o falsi, di non essere stati traviati da fama e denaro. Inoltre, specie in episodi come “Tutto il mondo è periferia”, “Senza pagare” e la stessa “Musica del c***o”, è facile accorgersi delle assonanze sonore con i vecchi 883, le cui notevolissime fortune furono non a caso edificate sul pop spesso ballabile, sui ritornelli di immediata presa e sull’abilità di interpretare e tradurre in parole, con tanto paraculismo e scarso gusto, la realtà che li circondava (e pazienza per la pochezza culturale della realtà stessa). J-Ax e Fedez, in sintesi, altro non fanno se non fotografare, cazzeggiandoci su e non rinunciando qua e là a lanciare superficialissimi pseudomessaggi di carattere sociale con le loro voci antitetiche e quindi complementari, lo sfacelo contemporaneo (scorrendo le note, tra l’altro, mi imbatto nel nome di Calcutta come coautore di un paio di pezzi, e direi che il cerchio si chiude). Ci sguazzano, nel trash, e se va bene a loro – rispettivamente a quarantaquattro e ventisette anni, eh: mica a quattordici – figuriamoci a me, che al momento sono ancora qui a impegnarmi vanamente nel tentativo di misurare l’estensione del cazzo che me ne frega del loro successo.