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Colombre: “Siamo troppo presi dalle nostre miserabili cose, dovremmo aprirci di più agli altri”

Si chiama “Realismo magico in Adriatico” il nuovo album di Colombre, uno dei migliori cantautori pop italiani.
A cura di Francesco Raiola
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Colombre foto di Alessandro Ruggieri
Colombre foto di Alessandro Ruggieri

Una volta c'era l'indie, un mondo in cui si muoveva una bella parte della musica italiana, quella che non andava spesso in radio, tantomeno nelle poche trasmissioni televisive più note, ma che aveva un pubblico importante, dettava mode, riempiva palazzetti, quello che qualche anno fa ha fatto la trap, insomma. A un certo punto quella che era una nicchia (più o meno) è diventata mainstream a sua volta, scalzando quello vecchio e ridefinendo il settore musicale. Ci si è molto interrogati sul nuovo indie, su cosa ci sia al lato di quello mainstream e sebbene il cambiamento sia ancora in atto, possiamo dire di poter ormai fare a meno di gabbie categoriali e parlare di musica bella, che dovrebbe avere più spazio e che regala sfumature nuove e diverse al mondo pop che conosciamo e che si contamina sempre di più. Colombre è sicuramente uno degli esponenti più interessanti e di talento della musica italiana contemporanea. Dopo Pulviscolo, che ne ha lanciato la carriera, e Corallo, il cantautore di Senigallia ha pubblicato il nuovo album "Realismo magico in Adriatico" in cui continua sulla strada che unisce psichedelia, dreaming e pop (categorizziamo per dare un'idea, ma la musica sfugge alle classificazioni pigre) e che questa volta si caratterizza per la sua capacità di inserire il perturbante nella realtà. Colombre lo fa nei testi e nella musica, come spiega in questa intervista a Fanpage.

Il titolo del tuo album mi pare un manifesto programmatico: quando e dove il realismo di Colombre diventa magico?

Diventa magico in un luogo geografico, la costa adriatica, quella di confine, più in disparte, nascosta rispetto a una grande città, che però fa parte dello stivale e ha un suo valore perché detta un confine con l'acqua. Questa cosa del realismo magico ha cominciato a esistere quando ho guardato dall'alto le cose che avevo scritto, e mi sono reso conto che queste canzoni parlavano di cose reali, successe a me o ad altri, che diventano magiche quando nel testo appare qualcosa di inquietante, misterioso, che non svela tutta la realtà. Spesso la realtà, infatti, è molto più magica di quello che immaginiamo: se guardi bene, anche nelle cose minuscole, quotidiane, c'è della magia.

E come ce l'hai inserito, quindi, l'Adriatico?

Il trip che mi sono fatto è che la costa adriatica per me è il simbolo di una marginalità di provincia che però nasconde in sé un grande mistero. Se ci pensi, anche il mar Adriatico è basso, la costa è sabbiosa, apparentemente tranquilla, invece è proprio lì, in quell'apparente tranquillità, che il mistero, quel qualcosa di obliquo, esiste, è un mare imprevedibile e questa tranquilla imprevedibilità è la cosa che più mi attraeva. L'Adriatico è un luogo simbolico, marginale, con un grande valore, ed è questo che ho cercato di dire nel concept, aprendo questa finestra su questa cosa ricca di sfumature che, anche se in disparte, ha una grande forza e un grande mistero.

Nelle tue canzoni c’è molta semantica del tempo, della giornata, nelle sue declinazioni: il mattino, il pomeriggio, l’oscurità, come se fosse fondamentale specificare quando si muove il narratore. Come mai?

Sono contento che questa cosa si colga, perché se lo guardo da fuori mi accorgo che è come se fosse la storia di una giornata. Ci sono canzoni che appartengono alla notte, però sempre legate a questo viaggio nella costa, altre canzoni sono più mattutine, altre ancora sono pomeridiane. Pensa a "Maledizione", mi piace immaginare che quando due persone sclerano – perché parlano sempre della stessa cosa, cozzano e non si trovano mai su quel punto – è come se fossero a pranzo e ogni volta viene fuori sempre la stessa situazione. "Qualche specie d'amore" sono quelle cose che dici la mattina appena sveglio, quando dici "ti voglio bene", e anche se la canzone si mantiene intatta sempre sotto la cenere, anche qua c'è l'inquietudine che entra in qualcosa di reale: cioè, io ti amo, però per far sì che questa cosa resti in piedi serve del mistero. O "Dureremo un'ora" che è il racconto di una notte in cui vaghi lungo la costa.

Oltre ai luoghi fisici ci sono anche quelli dell'anima e della mente, penso ai ricordi in "Più di prima".

Esatto, in quel pezzo con Franco126 c'è il mare blu della mia mente, quando senti una canzone e ti viene in mente tuo nonno che ormai non c'è più, ma può essere qui accanto, lassù, nell'etere, che la canta sempre. Parlandone con Franco avevo cominciato il testo in un determinato modo, avevo scritto la seconda strofa ma ci tenevo che ci incontrassimo, che ne parlassimo, volevo guardarlo negli occhi. Lui ha capito perfettamente questo gioco di ricordi e in quel momento siamo andati nell'onirico, quindi quella canzone potrebbe essere legata al mondo delle 3 di notte, mentre sei nel sonno e una canzone ti riporta nei vecchi ricordi che possono essere anche sbagliati, ti fanno male. C'è questo gioco surrealista di volerli quasi donare a qualcun altro perché te ne vuoi liberare, è un gioco legato anche a qualcosa di marino.

Come per Naturale…

Sì, il protagonista dice "non vedo il mare da questa stanza", ma in questo caso è semplicemente una cosa fisica, perché non lo vedo se apro la finestra da qui, per esempio. Però è anche qualcosa legato al fatto che non sei soddisfatto di quello che gli altri vorrebbero da te. Quella canzone l'ho scritta quando mi sono imbattuto in quest'articolo del piccolo Messi, ma vale per tantissime storie in cui al bambino prodigio viene detto che deve diventare un grande campione etc, ma il bambino vuole solamente giocare e non gliene frega niente delle aspettative del padre che vorrebbe che il figlio diventasse ciò che lui non è stato.

Scusa, devio un attimo: quindi tu scrivi senza guardare il mare?

Questa è una follia poetica, io sono dell'idea che se ti svegli alle 4 di notte e nevica e componi di getto una poesia, devi buttarla via. Il nostro è un lavoro certosino, puoi avere l'intuizione, io gioco sempre con la spontaneità, le melodie che restano nel disco sono venute fuori da un istinto, ma poi c'è del metodo. Bisogna avere le antenne dritte, perché le cose volano su di te, le canzoni sono nell'aria e tu devi avere le antenne dritte e catturarle, però per farlo ti devi aprire, ma è un gioco di ricerca continua, non puoi pensare che la scrivi così, all'improvviso, è rara come cosa. Credo sia una questione di metodo, continuità, esercizio nella ricerca. Mettersi sull'attenti per cercare qualcosa di che già esiste ma ancora non ha una forma è un esercizio quotidiano.

Tagliando con l'accetta direi che musicalmente siamo in ambito psich-pop. 

Quando ho cominciato a scrivere il disco avevo chiaro un obiettivo, cioè mi piaceva crescere e mettermi in gioco, come avevo fatto in alcune esperienze precedenti come il disco di Chiello, dove si uniscono due mondi lontanissimi, la produzione  di "Deluderti", insieme a Maria Antonietta, in cui sei nella nudità più assoluta perché è la tua ragazza quindi stai aiutando ad arrangiare delle cose di una persona che ami, oppure se pensi a quando ho suonato con Calcutta. Ti ritrovi a suonare e a fare delle esperienze dalle quali impari tantissimo, così quando mi sono approcciato a questo disco mi sono detto: "Vorrei cercare di portare queste esperienze nella nuova musica", però avevo come obiettivo riuscire ad unire quello che è stato "Pulviscolo", ovvero la spontaneità di un disco registrato in presa diretta, in poco tempo, per catturare quella cosa nell'aria a quello che invece è il secondo disco, cioè "Corallo", che era più strutturato, aveva un suono più grande, era più elaborato, ci sono degli strumenti diversi, più adulti: volevo appunto cercare di unire queste due cose per fare un terzo disco con delle strutture ritmiche solide, un disco registrato a tempo, col click, certo, ma che avesse comunque degli elementi spontanei, psichedelici, perché volevo andare in quella zona che mi attrae, che mi piace.

Ci sei riuscito?

Se lo guardo ora dall'esterno ha un po' quel marchio, quel suono che dai con un certo tipo di trattamento alla chitarra: pensa all'assolo di "Midollo", di cui vado molto fiero, è tutto lavorato in maniera psichedelica, sono chitarre pitchate, però in una struttura solida, in una canzone che viaggia rapida, non è che stai facendo progressive. La questione è riuscire a mettere sempre un elemento straniante come nel testo, in una cosa più reale e canonica.

Questa attenzione la vedo anche nel lavoro sulle voci con Maria Antonietta, no?

Anche qui c'è quel tipo di spontaneità di cui ti dicevo. Le voci sono state registrate nella stanza di casa da cui ti parlo perché volevamo dare un senso di intimità. Il pezzo l'ha scritto Letizia, ma è rimasto nel cassetto per un po', ovviamente io lo conoscevo perché me l'aveva fatto sentire appena l'ha scritto. A un certo punto è ritornato fuori, io mi sono messo a lavorarci per arrangiarlo, e a un certo punto l'abbiamo cantato insieme e lì è venuta fuori proprio la magia, perché abbiamo capito che quella canzone aveva proprio acquistato senso anche nel testo, ancora di più, cantando insieme. Poi, se ci pensi, è una cosa speculare, perché lei comincia a cantare e nella seconda strofa io canto le stesse parole sue. Avrei potuto fare il punto di vista maschile e cambiare la seconda strofa e invece no, è un gioco di specchi, io dico esattamente le stesse parole perché siamo uguali, non c'è nessuno che prevarica l'altro. Abbiamo capito che cantando in due la canzone aveva acquistato veramente un senso molto speciale, le parole vivevano di nuova linfa, erano perfette.

Insegni ancora?

No, non ho tempo.

L'ultima volta quando è stata?

Sono andato a fare l'ultima supplenza durante il Covid, ero fritto, a casa, mi hanno chiamato per una supplenza di due settimane, quella è stata l'ultima esperienza che ho fatto.

Ti manca il rapporto coi ragazzi?

Beh, ogni tanto penso che quando finirà questo ciclo del disco mi piacerebbe ritornare a una realtà più vera: alzarsi la mattina alle otto, tornare in classe a parlare con delle persone che ti danno tantissimo e a cui tu magari puoi dare qualcosa, avere questo scambio più reale, più immediato. Poi i ragazzi sono sveglissimi, stanno sempre col cellulare nascosto, tu un po' fai finta di niente, e così l'ultima volta che ho fatto questa supplenza mi sono ritrovato coi ragazzi che dopo 10 minuti mi hanno sgamato e hanno cominciato a chiedermi quello che facevo, se conoscevo tizio o caio, poi in quel periodo era appena uscito Oceano Paradiso di Chiello (a cui Colombre ha collaborato, ndr) e non hanno capito più niente e mi sono ritrovato durante la ricreazione con mezza scuola che voleva la foto, voleva capire.

Quindi mai dire mai, in futuro…

Sono esperienze che non mi precludo perché mi piace mischiare le cose, non mi piace stare semplicemente in un territorio, perché non mi darebbe un'ampiezza di veduta. Cioè, secondo me se scrivi musica, testi, se scrivi delle canzoni, devi pensare all'animo delle persone, ma con l'animo delle persone, per scriverne, devi averci a che fare, perché altrimenti come fai? Di cosa parli? Parlo di me, ma che noia! Io devo parlare di qualcosa che vedo, qualcosa che tocchi. Cosa che poi può essere fluttuante e andare a finire anche nei pensieri degli altri. Ragionando con Alan Sorrenti della grandezza di alcuni grandi personaggi – penso a Enzo Carella, ma anche allo stesso Sorrenti – ho avuto la conferma di questo mio pensiero, perché vedi grandi artista che hanno sempre voluto cercare di fare qualcosa che andasse a indagare nell'animo umano. Pensa a quella grandissima canzone eterna che è "Figli delle stelle", non "Figlia delle stelle", non "Figlio delle stelle", ma figli, perché c'è un senso di comunità che a volte un po' si perde perché siamo tutti soli, solipsisti, presi dalle nostre miserabili cose mentre se pensi alla comunità, una canzone può diventare anche di altri.

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