Colapesce Dimartino: “I Mortali? Terza via al cantautorato polveroso e alla canzone leggerissima”
Era scritto nel destino, checché ne dicano Colapesce e Dimartino, che prima o poi sarebbe nato qualcosa che avrebbe avuto la forma di un album dalla collaborazione prolungata di due dei migliori cantautori italiani contemporanei. Da anni i due fanno parte di uno stesso ambiente (ciao indie) e da un po' di tempo, ormai, fanno coppia anche come autori, portando la loro idea di scrittura anche nel cosiddetto mainstream, da Emma a Levante passando per Luca Carboni, Malika Ayane e Irene Grandi, per fare qualche nome. Ma Colapesce e Dimartino hanno disegnato la strada del cantautorato pop di questi ultimi anni tendendo sempre a mantenere intatta una scrittura ricercata e popolare e un gusto pop raffinato, ma mai elitario. Mescolando tutto questo arriva "I mortali", il primo album a doppia firma (tutto attaccato, però), che li vede dialogare con una serie di producer e produttori come Mario Conte, Frenetik & Orang3 e Mace, per citarne alcuni, che hanno vestito l'album, sotto la loro supervisione. Lanciato da singoli come "L'ultimo giorno", "Adolescenza nera" e "Luna Araba", i due raccontano la vita, ma anche la mortalità che ne fa parte e lo fanno tra calembour – come il pezzo che apre l'album "Il primo semestre" che è una presa in giro dell'industria discografica – una canzone tragica d'amore (o d'amore tragico, chissà) come "Rosa e Olindo", passando per il racconto siciliano dell'ultimo singolo con Carmen Consoli. I Mortali è già uno tra i migliori album usciti quest'anno e può essere, come dicono loro, tra il serio e il faceto, la dimostrazione che "una terza via al cantautorato polveroso e alla canzone che non dice niente, la canzone leggerissima insomma, esiste".
Avevate già cominciato prima, c’era già stata un’idea di scrittura insieme?
Colapesce: Sì negli ultimi anni abbiamo scritto parecchie cose insieme, anche per altri interpreti. Chiaramente l'autorato è completamente diverso rispetto a questo tipo di lavoro perché è come se fosse un lavoro di sartoria, fai dei prodotti quasi cuciti addosso all’interprete e cambia anche il vocabolario: se scrivi per Marracash usi un determinato tipo di termini, se scrivi per altri usi altre parole. In questo caso, invece, eravamo completamente liberi col nostro immaginario perché eravamo noi stessi gli interpreti delle cose che stavamo scrivendo e il pensiero di fare un disco è stato interessante anche dal punto di vista di scrittura: a volte tiravo fuori delle immagini su cui Antonio aveva dubbi, io viceversa lo facevo con alcune sue immagini, suoi punti di vista, poi ci siamo confrontati e abbiamo scoperto delle affinità nella scrittura che non era scontato portassero a un disco. All’inizio è stato un po’ sperimentale, poi quando abbiamo capito che in realtà stava venendo fuori qualcosa di bello e importante sono subentrate altre figure come le case discografiche, per esempio, però all’inizio era un po’ nato anche come un esperimento.
Un esperimento che nella scrittura allarga un immaginario pop che solitamente è molto più ridotto, no?
Colapesce: Striminzito, l’immaginario deve essere rassicurante, come l’immaginario dell’It-Pop, quelle cose molto rassicuranti. È un vocabolario forse più contemporaneo perché rispecchia il nostro tempo, ma che mi sembra sempre più povero dal punto di vista dell’ascoltatore. Personalmente sono legato anche per gli artisti che ascolto, anche esteri o italiani, a un tipo di scrittura che in qualche modo mi ha sempre turbato e fatto riflettere, non rassicurato. Ti parlo da fruitore, quindi, un po’ in modo naturale poi spinge al massimo questo elemento linguistico all’interno de I mortali.
Anche in un pezzo come "Luna araba" si vede quello che dicevi, nonostante ciò questo dimostra come si possa fare un cantautorato che sia realmente pop.
Colapesce: In realtà nella Storia c'è sempre stato, ma siccome manca da un po’ di anni sembra quasi una novità, però abbiamo avuto una grande scuola che andava in quella direzione.
Dimartino: È come se negli ultimi anni sia avvenuto qualcosa, che si sia voluto relegare il cantautorato in una specie di limbo che non dovesse mai, in qualche modo, scalfire, rappresentare ed entrare dentro le radio, nelle case delle persone, come se il cantautorato in qualche modo non dovesse avere niente a che fare con la gente ma dovesse rimanere relegato in una specie di ambiente ovattato. Però penso a ‘Centro di gravità permanente' che veniva ballato nelle discoteche, dice qualcosa, quindi in realtà una terza via al cantautorato polveroso e la canzone invece che non dice niente, la canzone leggerissima, esiste.
Paradossalmente il nuovo pop ha avuto grosso spazio grazie un pop venuto anni prima e che non ha avuto il successo che meritava…
Dimartino: Hai voglia, la musica italiana degli anni 90 e inizi 2000 ha avuto un sacco di band che facevano anche molta attenzione al linguaggio.
Musicalmente è un album che ha varie ispirazioni, avete lavorato con vari produttori, avete litigato per capire dove andare?
Colapesce: No, non c’è stato uno scontro, piuttosto un’esigenza di ricerca, andare alla ricerca di una sonorità diversa, però alla fine ci siamo accorti – ma proprio alla fine – che il disco è super omogeneo, sembra quasi prodotto da una sola persona, forse perché sia io che Antonio siamo dei produttori. Io ho sempre prodotto i miei dischi insieme ad altri, quindi è stato come lavorare in una sorta di big band di producer che sono stati coinvolti di volta in volta per creare un sound di cui non avevamo ancora un'idea precisa ma solo una suggestione. Confrontarsi con gente che lavora diversamente da te, però, è stato stimolante, perché il rischio è di ripetere la tua formula, che inevitabilmente viene fuori. Anche se devo dirti che è una cosa che a me non dispiace, poi io sono super fan di Neil Young che fa la stessa cosa di 50 anni e la fa sempre bene, quindi non mi preoccupa quello. Solo che essendo un progetto nuovo mi piaceva l’idea di radere al suolo qualsiasi cosa dal punto di vista sonoro e anche linguistico, sebbene vengano fuori le nostre caratteristiche classiche che stanno anche nei nostri dischi, però ci sono dei click narrativi nuovi rispetto alle nostre canzoni.
Sì, mi pare un trait d’union tra la novità e la vostra idea di musica, tra l’altro siete due che in qualche modo hanno variato molto negli album. C’è un’aspettativa di pubblico più ampio come gusto rispetto alla somma dei singoli?
Colapesce: Guarda non sono calcoli che riusciamo a fare a priori, è un caso che adesso c’è un brano in alta rotazione nelle radio, ci fa piacere ma quello di allargare il pubblico non era l’obiettivo. A me basta la nicchia, poi se arriva più pubblico ben venga. Ovviamente sono anche consapevole che in Italia un tipo di pubblico non arriva e non mi meraviglia. Non mi interessa fare lo stadio con quello che scrivo.
Dimartino: Pensavamo di fare una cosa per persone che ci seguivano, poi che il pezzo vada in radio è una cosa bella che poche volte è capitato con le nostre canzoni, quindi ben venga. Nella scrittura, il pensare al fruitore non è stato mai un aspetto fondamentale.
Ovvio, conoscendovi non era quello che pensavo. Solo che a prodotto finito uno può anche pensare che questo nuovo modo di comporre possa arrivare a un pubblico più ampio…
Colapesce: Certo, sicuramente ha più potenziale rispetto a quello che abbiamo fatto con i nostri dischi solisti. La nostra volontà era quella di fare un disco pop d’autore, portare là il discorso dei contenuti all’interno di una confezione più fruibile, mettiamola su questo piano.
Però ci manca un po’ la canzone ambientata a Roma, di notte, in auto, col finestrino aperto.
Colapesce: Ne abbiamo scritte un paio, poi non le abbiamo messe (ride, ndr).
Scherzi a parte, che idea di racconto avevate quando avete messo mano al progetto?
Dimartino: È un disco che vuole parlare della vita, vuole raccontare esperienze di vita non tralasciando, però, esperienze forti come la fine della vita. È come se il pop abbia sempre raccontato il lato spensierato della vita, mentre il racconto della tragicità dell’esistenza è stato sempre relegato ad altri generi. Il pop non si è mai preso in carico la responsabilità di dire delle cose che riguardassero anche la mortalità, il fatto di morire, per cui in questo disco seppur non se ne parla in maniera esplicita comunque è uno dei temi. C'è ad esempio l’idea dell’adolescenza come esplosione massima della mortalità e questi adolescenti che si muovono in questa specie di isola, che vagano, riflettono sui temi, non pensando e rimandando sempre l’idea della morte, in qualche modo racconta le esperienza della vita che è un’esperienza che è destinata alla fine, destinata a un orizzonte.
Prima parlavate de disturbante: Rosa e Olindo come vi è venuta in mente?
Colapesce: L’idea era quella di scrivere una canzone d’amore evitando la parte autobiografica, ma mettendo dentro un sentimento sincero, a prescindere dal contesto in cui fosse ambientata, quindi l’idea di utilizzare la tragedia… Abbiamo seguito le vicende processuali del caso e ci ha colpito molto una frase di Olindo che a un certo punto chiede di avere una cella matrimoniale, che è una cosa assurda, un concetto impensabile, questa cosa della cella matrimoniale. Tolto il titolo potrebbe essere una storia d’amore tra due carcerati a distanza.
Dimartino: Se dalla canzone togli il titolo non lo capisci naturalmente che parliamo di Rosa e Olindo, ci sono riferimenti ma devi proprio conoscere bene la storia. Infatti a un certo punto abbiamo pensato di intitolarla “Mostri perfetti”, però sarebbe stato come deresponsabilizzarci, invece abbiamo deciso di di chiamarla così, prenderci la responsabilità di tenere loro come protagonisti della storia perché in qualche modo pensi che è una cosa da fare, le canzoni devono metterti a disagio, se l'avessimo chiamata "Mostri perfetti", nessuno avrebbe provato disagio. Chiamarlo Rosa e Olindo è stata una scelta che è coerente con le cose che abbiamo fatto.
Ormai siete i cantori contemporanei della Sicilia: "Luna Araba" nasce prima o dopo Lo stretto necessario di Levante?
Dimartino: Dopo, dopo, "Lo stretto necessario" era più legata all’infanzia di Claudia, il Lido Jolly
Colapesce: Sì, avevamo letto questa cosa da una mezza intervista di Claudia, come autori ci piace provare a modellare sull’interprete un brano.
Essendo vostra, questa, ve la siete fatta come vi pareva, invece…
Colapesce: Volevamo essere più lisergici possibile nel raccontare. Sì ha un sacco di immagini psichedeliche, anche il video disegnato da Tommaso Buldini era perfetto.