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Californication diventa maggiorenne: il capolavoro dei Red Hot compie 18 anni

L’8 giugno del 1999 i Red Hot Chili Peppers pubblicavano l’album Californication. Sebbene fosse già il settimo album in studio della band californiana, il disco è diventato il loro manifesto, simbolo di una intera generazione, che ha capito cosa significa lasciarsi dominare dalla “californizzazione”.
A cura di Valerio Papadia
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Per quelli che, come me, sono pericolosamente vicini ai trenta, o che li hanno superati da poco, Californication rappresenta – ma qui forse parlo solo a titolo personale – l'album che ha cambiato il nostro modo di intendere la musica rock, che ha stravolto il nostro modo di concepire quell'universo di parole e strumenti che fino ad allora era soltanto un miscuglio di accordi banali e testi leggeri, retaggio ancora della cultura scanzonata che era stata, generalmente, la musica degli anni Ottanta. Quelli nati nella seconda metà di quel decennio e cresciuti a cavallo tra i Novanta e il nuovo millennio, non possono annoverare molti album che hanno lasciato una vera impronta nell'immaginario collettivo: Grace di Jeff Buckley (1994) e Ok Computer dei Radiohead (1997), insieme a Californication, che ha consacrato i Red Hot Chili Peppers, sono forse gli unici lampi degni di nota di quegli anni.

Pubblicato l'8 giugno del 1999, sebbene fosse già il settimo album in studio della band di Los Angeles formatasi nel 1983, ha avuto la forza di diventare il manifesto dei Red Hot, l'inno di un'intera generazione, anche e soprattutto di quelli che le spiagge di Santa Monica e i locali dell'Hollywood Boulevard non sapevano nemmeno che aspetto avessero. Forse complice lo scarso successo del precedente disco, One Hot Minute, Californication ha saputo imporsi al primo ascolto, mescolando pezzi marcatamente rock come Around The World, Parallel Universe e Easily a dolcissime ballate come Otherside, Scar Tissue, Porcelain e Road Trippin'. La potenza del disco è però, a mio avviso, racchiusa in una frase, talmente evocativa che probabilmente rende inutili tutti i discorsi che sarebbe possibile intavolare sull'album. Nell'ultima frase dell'ultima strofa della canzone che dà il nome al disco, Anthony Kiedis, il frontman della band, canta: "Nemmeno un'onda anomala potrebbe salvare il mondo dalla ‘californizzazione'". E aveva ragione: da quel giorno di 18 anni fa, il mondo non solo non si è salvato – per fortuna – ma è stato completamente assoggettato dalla Californication.

Il ritorno di John Frusciante

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The last but not the list. A mio avviso, il vero elemento di successo dell'album è costituito dal ritorno di John Frusciante, il chitarrista della band, che nel 1992, nel bel mezzo del tour di promozione di Blood Sugar Sex Magic mollò tutto per dedicarsi a progetti solisti e per allontanarsi dall'eroina, il leitmotiv della band in quegli anni (il primo chitarrista dei Red Hot, Hillel Slovak, morì di overdose nel 1988). Dopo lo scarso successo di One Hot Minute e la deludente esperienza di Dave Navarro (chitarrista dei Jane's Addiction), Frusciante portò nella band una ventata di aria fresca, oltre al suo virtuosismo musicale e al talento nello scrivere i testi insieme a Kiedis. Coadiuvati dal basso psichedelico di Micheal Flea Balzary e dalla batteria di Chad Smith, Kiedis e Frusciante si chiusero nella casa del primo, nel 1998, per dedicarsi alla scrittura delle parole e della musica di quello che sarebbe diventato il loro capolavoro.

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