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Baustelle: “Tutto può essere politico, anche una canzone pop”

Dopo un periodo di stop, i Baustelle sono tornati con il nono album, Elvis, in cui hanno voluto rimettere al centro le chitarre.
A cura di Francesco Raiola
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Erano passati cinque anni dalla pubblicazione del secondo capitolo de "L'amore e la violenza", ultimo album in studio dei Baustelle che, nel frattempo, avevano pubblicato album da solisti. Per questo ritorno, però,  Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini hanno voluto circondarsi di una band e tornare a far suonare un po' le chitarre, dopo un po' di sperimentazioni in altre direzioni (coi synth più importanti della sei corde). Anticipato da singoli come "Contro il mondo" e "Milano è la metafora dell'amore", quest'album torna ad affrontare alcuni dei temi che hanno sempre caratterizzato la band, dall'amore al liberismo sfrenato, passando per la fine e lo fa, ancora una volta, con un gruppo di personaggi che pur sembrando sempre altro, rappresentano sempre i tre componenti della band. Abbiamo parlato con Bianconi e Bastreghi di questo ritorno.

Come nasce Elvis?

Elvis nasce a Napoli. Nel 2017 ero imbottigliato nel traffico, in autostrada, avevo il Vesuvio sulla destra, ho scattato una foto col cellulare e ho pensato che potesse essere una copertina meravigliosa. Ho avuto questo lampo e all'epoca – erano i tempi de L'amore e la violenza quindi del synth analogico – mi sono detto che il prossimo disco dei Baustelle mi sarebbe piaciuto fosse un disco di chitarre, intitolato Elvis, con quella foto come copertina. Poi noi siamo andati avanti con L'amore e la violenza, sono passati concerti, a un certo punto ci siamo presi una pausa, abbiamo fatto i rispettivi dischi solisti, c'è stato il Covid. Però ci siamo ricordati di quella istantanea e abbastanza naturalmente questa visione del futuro, con le chitarre, è diventata ancora più pressante e urgente.

E qual è stato il primo passo musicale?

Il primo pezzo elvissiano è stato "Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club" che è servito da matrice per definire la direzione.

Contro il mondo di oggi, contro i riempitivi tipo i rave, contro il capitalismo, il liberismo, avete sempre una propensione a raccontare ciò contro cui siete, anche questa volta, no?

Perché il contro è la posizione favorevole e necessaria, quella dello sguardo critico che la musica, la letteratura, l'arte dovrebbero sempre avere. Come diceva Michel Houellebecq "il mondo è orribile", quindi per principio tu devi starne in opposizione, io sono d'accordo: il mondo è una creatura orribile fatta dagli uomini e essere contro una cosa che hai contribuito anche tu a rendere così orribile ti eleva, e a forza di critica e di opposizione in teoria il mondo dovrebbe migliorare.

Spesso la dimensione politica è ad appannaggio solo del cantautorato. Il pop può essere politico?

È un errore considerare che solo il cantautorato possa essere politico, anzi è una cosa molto italiana: il rock può essere politico, il pop può esserlo, tutto dovrebbe politico, bisogna scegliere il modo di essere politico. Per me qualsiasi cosa che non sia ripetizione o cliché di fatto è politico, mentre quella musica che sai già dove va a parare, quella che ascolti e ha tutta lo stesso suono, invece, non è politica. Qualsiasi punto di vista è politico, un gesto dell'individuo all'interno della polis, per cui tutto può essere politico, anche una canzone pop, è solo che molto probabilmente siamo molto ancorati al fatto che c'è un campo in cui con la musica si possono dire delle cose importanti o impegnate e quello sarebbe il recinto dei cantautori – ed è uno sbaglio perché poi si creano delle torri d'avorio – e poi c'è lo spazio più grande, il volemose bene della musica pop che è fatta solo di musica che deve essere cantata sotto la doccia e che non deve creare problemi e che è sempre uguale e si ripete all'infinito.

Però le vostre canzoni si possono cantare sotto la doccia…

Noi ci proviamo, siamo qui per fare entrambe le cose: la doccia e il punto di vista sul mondo.

"La nostra vita", "Jackie" raccontano una sorta di ricerca di equilibrio. Come band, alla fine, come l'avete trovato?

È come quando ti innamori una persona, sai c'è quel legame che ritornerà e che vuoi alimentare. Ma ci lasciamo anche liberi, ci lasciamo i nostri spazi, abbiamo fatto i nostri viaggi e poi a un certo punto c'è voglia di tornare insieme a fare delle cose, perché ci vogliamo bene, perché c'è qualcosa da dire insieme, perché ci crediamo in quella cosa. L'equilibrio è cambiare, trasformarsi, essere aperti a sfidarsi, arricchirsi di stimoli, dare, ricevere, essere aperti al cambiamento, non essere fissati col tuo ruolo preciso: in un disco puoi cantare di pi, in altri di meno, funziona come una comunità, si torna al concetto di Baustelle come laboratorio e quel laboratorio deve essere sempre in movimento.

E questa voglia di tornare alle chitarre come l'avete sviluppata?

È un disco glam rock, nel senso che riprende quel suono inglese di inizio anni 70, è un nostro andare verso l'America tramite la riproposizione dell'America fatta soprattutto in Inghilterra: Bowie, T-Rex e Lou Reed che va in Inghilterra a farsi produrre Transformer da Mick Ronson. Ci siamo arrivati con la voglia di fare un disco che fosse più sincero, più diretto, più suonato, con più chitarre elettriche in evidenza: abbiamo formato una band, abbiamo cercato dei musicisti nuovi che ci aiutassero ad andare in questo territorio dove non eravamo mai andati proprio musicalmente parlando, cioè certi cliché e modi musicali di suonare, tipici della musica più rock originaria americana, e ci siamo arrivati facendoci aiutare da queste persone proprio in fase zero di lavorazione, per cui le canzoni sono state scritte per la gran parte insieme a queste persone durante delle sessioni di scrittura e arrangiamento. E questo è stato il modus operandi. Siamo stati bravi a scegliere, ma anche fortunati perché comunque abbiamo creato proprio anche rapporti belli, grande affinità e soprattutto è venuto molto spontaneo.

Molte di queste canzoni nascono dalle storie di altri, in che modo le fai tue?

(Bianconi) In queste canzoni ci sono tante storie, tanti personaggi, i testi sono scritti in un periodo di tempo molto compresso, per cui è tutto molto legato. È una specie di piccolo libro di racconti con lo stesso sfondo, che poi è la stessa città, alla fine è un disco che parla molto di Milano e di personaggi che la popolano. Molti testi sono scritti di getto, i personaggi sono un modo per porre un punto di vista diverso, oppure semplicemente sono dei correlativi oggettivi perché sono comunque me, tutti quanti. Alcuni sono nascono da osservazione di cose di cronaca: non conoscevo la persona che si è buttata dalla finestra dell'hotel, ma ne ho letto e sono passato di lì dopo non molto che era successo. Jackie nasce perché ero in bicicletta, fermo al semaforo, e questa Drag mi ha detto: "Sempre John Lennon" e io ho risposto: "E tu sembri Jackie Kennedy". Sono tutti parte di me, benché non li conosca a fondo ma gli ho messo dentro delle cose che sento. Quell'uomo era maschio ed è diventato Rachele, per cui è correlativo oggettivo mio, di Rachele, di Claudio, attraverso il suono, per cui è il bello dello scrivere canzoni come dovrebbero essere secondo noi, ovvero il fatto che sono dei modi per raccontare te stesso, per esplorarti e modi per comunicare queste cose agli altri, sperando che qualcuno si possa riconoscere.

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