Amir Issaa: “Mia madre mi chiamava Massimo per proteggermi dal razzismo. La speranza? È nei rapper”
"La gente mi ha confuso con un immigrato, con la faccia da straniero nella mia nazione, se il futuro qui è la seconda generazione" cantava Amir Issaa in "Non sono un immigrato". Rapper, attivista, romano di Tor Pignattara, di origini egiziane, Amir Issaa è uno dei nomi storici del genere in Italia, protagonista della scena romana e uno dei pochi in grado di girare il mondo a spiegare cosa succede nel nostro Paese. Il suo è uno dei nomi italiani più credibili quando si vuol parlare di rap e razzismo e comunque ha dovuto scrivere una canzone per spiegare che nonostante nome, cognome e fisionomia è italiano. Fa ridere doverlo spiegare ancora oggi, eppure Amir dice a Fanpage.it che funziona ancora così. Pochi giorni dopo l'uccisione di George Floyd da parte della Polizia americana, Amir ha pubblicato un freestyle perché, ha raccontato, l'arte è il modo migliore per attuare il cambiamento. Sono ancora pochissimi, nel mondo della musica, gli artisti di seconda generazione che riescono a conquistare la testa delle classifiche e la maggior parte viene dal rap, ma è da lì che si può partire per cambiare qualcosa: "In Italia ho vissuto problemi di razzismo e discriminazione fin da quando ero piccolo, per il mio nome, il cognome e i tratti somatici" ha raccontato, spiegando che per proteggerlo la madre ha preferito chiamato Massimo fin dai primi anni della sua vita così da evitargli ulteriori problemi.
Amir, in che modo quello che sta succedendo negli Usa ci riguarda e riguarda anche la musica?
Se fai un genere che nasce dalle minoranze, dai latinos, gli afroamericani nel Bronx, dovresti sentirti, anche se sei italiano, un minimo coinvolto, indipendentemente se sia nero, bianco, etc, ma proprio pensando al rap inteso come movimento culturale.
Tu hai vissuto sulla tua pelle problemi di razzismo?
In Italia ho vissuto problemi di razzismo e discriminazione fin da quando ero piccolo, per il mio nome, il cognome e i tratti somatici. Quando andavo a scuola eravamo ancora in una fase precedente a questa, i figli di immigrati erano pochi numericamente. A scuola ero da solo, non erano abituati al fatto che un ragazzo si potesse chiamare Amir e infatti mia madre mi fece cambiare nome in Massimo; c’è tutta questa storia che mi ha segnato, perché mi sono sentito chiamare Massimo da quando avevo un anno fino a quando ho preso la carta di identità in mano. Ho affrontato seriamente un problema con la mia identità, appunto: per facilitarmi il percorso mia madre ha preferirmi chiamarmi con un nome italiano, ora capisco che lo fece per proteggermi.
Essere stato Massimo per tanti anni ti ha protetto veramente?
Secondo me in quel momento della mia vita mi ha protetto. Io venivo da una famiglia con madre cattolica, padre musulmano, di religione islamica, non ero battezzato, poi mio padre è andato in carcere e mia madre si è trovata a non poter più tenerci a casa perché faceva due lavori e così ci portò in una sorta di collegio, andavo in una scuola di suore. Sai, vivere quel disagio lì era difficile, mio padre detenuto, un nonno fascista che era andato con Mussolini a fare la campagna d’Africa, ha collaborato con chi ha colonizzato quelle terre, però la storia gli ha risposto così, con mia madre che nei primi anni ’70 si innamorò di un uomo egiziano. È tornata dalla sua famiglia per sposare mio padre e loro l'hanno allontanata, così quando mio padre è andato in carcere è stato un bel motivo per loro per darle il colpo di grazia e dirle: “Te l’avevamo detto, hai sbagliato”. Insomma, penso che mia madre in quel periodo della vita stesse vivendo un periodo difficile e ha cercato di limitare il più possibile i problemi a me, cercando di farmi sentire come gli altri. Tra l'altro mi ha chiamato Massimo come Ranieri, perché era fan, e le è uscito un figlio rapper!
In questo contesto, quindi, il discorso identitario assume una valenza enorme…
Avevo mio padre in carcere, appunto, problemi pesanti in famiglia e mia madre mi ha accompagnato in tutto questo processo. Subito si è creato un problema di identità, quindi, sul chi ero io: vivo in Italia, nasco in Italia, parlo italiano, però c’è qualcuno che ancora non mi considera italiano.
E qui torniamo alla domanda iniziale, ovvero cosa c'entrano i riot americani con noi?
Sì, è un discorso legato a ius soli e alla cittadinanza, quindi, di riflesso, quello che sta succedendo negli Usa mi ha fatto riflettere su tutto quello che abbiamo fatto e su quello che possiamo ancora fare anche su questi temi e su questo lungo percorso. Penso, per esempio, alla trafila che deve fare un ragazzo che nasce qui e vive qui per essere trattato come gli altri: l’Italia ha un enorme problema col colonialismo, come dice spesso Igiaba Scego, che cito perché è lei che mi ha aperto a questo mondo, mi ha fatto riflettere tanto facendomi notare come se ne parli poco.
Come si traduce questo discorso di identità e razzismo nella musica?
Quando si è cominciato a parlare di razzismo e discriminazioni con la musica inizialmente l’ho fatto in maniera spontanea. Il rap nella gran parte dei casi è autobiografico, poi c’è chi lo fa raccontando una vita reale e chi inventa una vita parallela, però io ho sempre preso l’esempio dai rapper americani. Quando ero piccolo traducevo i testi e sentivo che in quelli di alcuni rapper americani c’era spesso l’impegno sociale: parlare del quartiere della comunità era cool, era una cosa figa, invece vedevo che qui in Italia, nella comunità hip hop, impegnarsi, parlare di problemi sociali, già agli inizi del 2000 – periodo in cui uscirono Fibra, i Dogo, Mondo Marcio, e pure io – non era di moda. Il mio primo album, che uscì nel 2006, era un album di rap italiano con dentro tematiche sociali come cittadinanza e antirazzismo: in quel momento era una cosa strana, perché intorno a me vedevo che nessuno parlava di questi temi sociali, nella musica erano visti come qualcosa di vecchio: si parlava di Assalti Frontali, Menti criminali, dei rapper militanti dei '90 come di qualcosa che era finito, il rap era un genere di massa, quindi racconta quello che vuoi, che fai i soldi, ed è tutto figo.
L’egotrip insomma…
È stato sdoganato e va bene anche quello, però mi guardavo intorno e vedevo che in America impegnarsi era cool, i rapper americani facevano la hit commerciale ma in compenso guardavo i video sui social e li vedevo andare nei quartieri a regalare le scarpe ai bambini oppure vedevo un rapper che si impegnava e fare raccolta fondi per comprare quaderni ai bambini del quartiere: il mio esempio è stato sempre quello. L’hip hop viene dal basso, ho sempre preso quello come esempio, e vedevo che in Italia questo messaggio era stato travisato. Io ho un figlio di 20 anni, è nato quando avevo 21 anni e ha seguito tutto il mio percorso musicale e di riflesso io il suo, quindi avere un figlio che cresce, adolescente, mi ha fatto avere un po’ più di sensibilità e apertura verso le nuove generazioni, a differenza di tanti della mia generazione che pensano che la trap dica solo cazzate.
Come sei finito in America?
Quelle canzoni che scrivevo nel 2006/7/8 sono arrivate in America grazie a dei ragazzi che studiavano l’Italia e lo facevano studiando la cultura italiana legata al cambiamento che avveniva anche grazie alle migrazioni e all’immigrazione. Per loro è un processo normale, perché vivono in un paese in cui già a scuola studiano un fenomeno dell’immigrazione che è molto più forte rispetto al nostro. Insomma scrivevo queste canzoni, parlavo di razzismo, ius soli, e c’erano questi ragazzi che le avevano intercettate e pensarono che fosse il modo per comprendere quello che succedeva da noi, era interessante anche perché Igiaba, ad esempio, aveva scritto qualche libro, erano i primi anni 2000, io ero arrivato con un po’ di rap, iniziavano a nascere le prime associazione, tra cui Rete G2, poi dopo ne sono nate tante altre. Ho capito che c’era, intorno a me, altra gente che aveva un’identità mista come me o, come Igiaba, che è proprio somala. Pian piano vedevo che qualcuno faceva questi ragionamenti, ma sempre meno nel rap, più nel mondo della letteratura, per esempio, e mi coinvolgevano, era l’inizio ma iniziavo a sentirmi parte di una comunità.
La comunità degli "Italieni", per usare il nome di una vecchia rubrica di Igiaba su Internazionale?
Esatto, erano i primi tempi in cui i giornalisti si rivolgevano a me come a uno dei primi rapper di seconda generazione. Lo raccontavo anche in modo ingenuo, avevo 25 anni, ero offuscato anche da tutto quello che di bello mi succedeva, in quel momento mi sono sentito pian piano non so come dirti… scrivevo una canzone e mi scrivevano dall’estero, mentre in Italia non succedeva molto. Non era come in Francia, dove i rapper vengono da situazioni familiari vere, appartengono a luoghi che sono periferiche, le banlieue, mentre in Italia la maggior parte dei rapper non venivano da quei luoghi.
Cosa che mi pare sia cambiata ultimamente, no?
Sì, è cambiata con la nuova generazione, tanti rapper hanno origini straniere, ne vedo molti, ma è un fenomeno recente, per tanti anni sentivo intorno a me i rapper che quando dovevano raccontare la loro vita oltre al personaggio, andavano in difficoltà. Io ho sempre preso esempio da Nas, per dire, leggevo i testi, poi la biografia e capivo che veniva dal ghetto, quello è stato il mio insegnamento. Ti racconto una storia e torno a quando mi hanno invitato in America: è stato circa 5 anni fa, andai a Dartmouth College, era un’Università privata della Ivy League, mi guardai intorno e ovviamente c'erano pochissimi afroamericani, pochissimi, e cominciai a pensare che forse gli Stati Uniti non erano il posto che pensavo, in cui ovunque vai c’è una società multiculturale, ma fu lì che presi consapevolezza con l'idea che la società era stratificata. Io volevo i rapper che rappavano agli angoli delle strade, invece arrivo in un posto del New Hampshire, un posto tranquillissimo, con i laghi, i boschi e tutti bianchi e ho capito il perché, perché costava un botto la retta.
E gli Stati Uniti come li pensavi tu quando li hai incontrati?
Pochi giorni dopo, passai da Darmouth a New York in tre giorni, arrivando in quello che era il mio ideale ideale e lì c’era il "diversity": la differenza è che il razzismo c’è sia in Italia che in America, però in America se cammino per strada vedo che nei diversi ruoli di cui si compone la società, dalla politica alle forze dell’ordine, passando per gli autisti, etc, c'è sempre una diversità. Questa cosa fa stare più tranquillo un ragazzo come me. Lo so, sembra strano, perché lì la Polizia ti ammazza, però se cammino per strada in Italia e arrivo alla stazione della metro a Roma mi guardano continuamente, mi vengono incontro provocatoriamente. E succede a me, pensa a un ragazzo nero che arriva a Termini e rischia di essere fermato perché ancora non ci siamo abituati al fatto che uno nero può essere italiano. La diversità era qualcosa che mi faceva riflettere: ero in metro a NY, mi guardavo intorno e c’erano persone che esteticamente sembrano persone che vengono da altri Paesi: in Italia ti chiederebbero da dove vieni e quello ti risponderebbe da Brooklyn e ti guarderebbe strano.
Ti è successo?
A me nelle interviste, all’inizio, mi capitava che mi chiedessero come mangiavo a casa, ti giuro: “Come mangiate voi? Come noi o altre cose?”. Era un misto tra ignoranza e stupidità, all’inizio mi arrabbiavo, ma dopo un po’ ho cominciato a prenderli in giro e poi ho scritto “Non sono un immigrato” e lì ho iniziato a essere un rappresentante inconsapevole delle seconde generazioni. Pian piano, lentamente, hanno cominciato a muoversi delle cose, ma l’esperienza americana mi ha fatto crescere tanto.
Nero, afroamericano, migrante, immigrato, afrodiscendente: senti, la parole forgia noi come persone e come società, pensi che esista anche un problema del linguaggio?
Assolutamente sì. Pensa che c’è stato un periodo in cui anche tra noi avevamo delle difficoltà, ricordo che anni fa costituimmo un’associazione di ragazzi di seconda generazione e a volte nelle riunioni litigavamo anche tra di noi sul come dovevamo definirci, per farti capire come la percezione che ha ogni ragazzo che nasce in Italia da genitori stranieri o chi ci è arrivato magari a due anni sia già diversa. Litigavamo per come dovevamo definirci e anche per come ci sentivamo. Te lo racconto per dirti come anche tra noi talvolta non c’è chiarezza, perché non è che tutti i ragazzi di seconda generazione pensano, ragionano e lavorano nello stesso modo, ma per niente! Adesso, con la questione della morte di George Floyd, per esempio, guardando status, dichiarazioni etc ho visto che siamo ancora molto frammentati, non c’è un’unione tra ragazzi afroitaliani, di seconda generazione, siamo ancora facendo un percorso.
Cosa è successo quando hai visto quello che stava accadendo negli Usa?
Quando ho sentito della rivolta mi sono sentito toccato, avendo subito discriminazioni sulla mia pelle mi sono sentito più coinvolto rispetto, per esempio, ad altri rapper che non hanno mai avuto questi problemi: ho preso qualche giorno e ho visto che la gente scriveva post sui social e stavo per scriverne uno anche io, quando mi sono detto: "Fermati!". Negli anni ho fatto musica, è questo che ha lasciato messaggi belli alle nuove generazioni, canzoni scritte 10 anni fa che sono ancora tristemente attuali: quindi ho pensato a un freestyle, ho scritto 16 barre, l’ho rappato, ho fatto un piccolo video e l’ho lanciato e ha girato tanti sui social. Lì ho riflettuto su come la musica e l’arte siano strumenti efficaci: in una strofa di 16 barre ho detto tutto quello che volevo dire e che non avrei saputo dire in un post. La musica è efficace.
Sono pochi anni che vediamo italiani di seconda generazione in classifica, e lo vediamo soprattutto col rap, quando questo ha avuto un’enorme esplosione. In che modo il genere può essere veicolo per far entrare certi temi in un discorso più mainstream? In fondo l’arte è fondamentale anche per la visione globale della questione, no?
Quando ho cominciato a fare rap ce n’erano pochi, poi pian piano ho visto i rapper di seconda generazione emergere, penso a Ghali soprattutto, e questo mi ha fatto molto piacere, però va riconosciuto che loro stanno cavalcando un periodo storico diverso dal mio, in cui anche la musica è cambiata. Il mio rap è esplicitamente di lotta, di battaglia, ma erano canzoni che dall’inizio alla fine parlavano di un tema: di razzismo in “Straniero nella mia nazione” o ius soli in “Ius music”. Ma era un modo di procedere che si utilizzava prima, mi rifacevo ai 90, alla mia scuola, quella da cui ho imparato. Nella Trap non sempre le canzoni hanno un tema chiaro dall’inizio alla fine, magari parla di un tema ma dentro ci sono degli slogan, delle frasi. A parte "Cara Italia", nelle altre spesso Ghali scrive una canzone in cui ti racconta una cosa e poi ci butta dentro una rima in arabo o una parola o qualcosa che funziona uguale. Non dico che è meglio o peggio, è un altro stile, un altro modo di fare musica, ti dico che tecnicamente lo facciamo in modo diverso, il loro arriva in un modo più gentile, però arriva. Io sono contento, perché quando li sento vedo che hanno capito che fare una canzone interamente esplicita è rischioso, spesso si può essere strumentalizzati, come capitava anche a me, sia a destra che a sinistra.
Secondo te, quindi, c’è bisogno di più assunzione di responsabilità o va bene anche così?
Va bene così perché questo è quello che arriva ai ragazzi più piccoli. Il lavoro va fatto nelle scuole, sensibilizzando e facendo riflettere i giovani. Per farlo devi avvicinarli con qualcosa che è cool per loro, la canzone esclusivamente a tema sociale sul razzismo rischia di allontanarli, invece la canzone di Ghali figa, in cui è vestito figo, il video è bello, etc attira la loro attenzione. E poi sono sicuro che ascoltando il disco di Ghali un ragazzo una riflessione sull’identità sulle seconde generazioni la fa. La fa in un altro modo, forse, ma secondo me la fa. Non mi sentirei di dire a Ghali di essere più esplicito lui, il mio appello, oggi, è che secondo me chi fa rap, ha delle origini non solo italiane e vede quello che succede nel Paese e nel mondo, i problemi di razzismo, etc faccia qualcosa: io la faccia ce l’ho messa per lo Ius Soli, il razzismo in Italia, le periferie…
Un po' di attivismo reale, insomma?
In Italia l’attivismo non è cool, non è visto come una cosa figa, è roba da sfigati, quando andai negli Stati Uniti mi presentano proprio come "activist", cosa che quando l’ho letta glielo dissi che se in Italia usassi attivista la gente fraintenderebbe, penserebbero che vado a buttare molotov, che sono uno violento, abbiamo questa idea sbagliata.
Quindi se dovessi lanciare un messaggio a chi sta vedendo quello che succede quale sarebbe?
Partirei dalla polemica che si sta facendo in questi giorni su chi è italiano e si mette a parlare di cose che non conosce. Se non conosci, puoi affiancare una lotta, ma devi avere l'umiltà di non giudicarla, perché se c'è un dibattito sull'omosessualità, io posso ascoltare, affiancare, aiutare, ma non giudico, non posso giudicare una lotta che stanno portando avanti persone che vivono un dolore che dura da centinaia di anni.