Alessandro Fiori: “Mi sorprendo a trovare ancora stimoli per sperimentare con la forma canzone”
Alessandro Fiori ha vissuto tante vite, sia coi Mariposa che nel lungo cammino solista. Artista che una colonna di quello che una volta era l'indie italiano, poliedrico, attentissimo alle parole e ai racconti, con una vena psichedelica come si ascolta nell'ultimo lavoro "Mi sono perso nel bosco", un album in cui Fiori racconta la quotidianità dei 50 anni, un pugno di canzoni di cantautorato pop che sono concrete, ancorate alla realtà, ma che lasciano nell'ascoltatore sempre un effetto di rarefazione e sospensione. Un'attenzione enorme alla produzione, agli arrangiamenti, con l'uso anche di strumenti come wurlitzer, harmonium, omnichord, e la collaborazione alla produzione, appunto, di Giovanni Ferrario e Alessandro “Asso” Stefana oltre a quelle di Brunori Sas, Levante, Colapesce, Massimo Martellotta, Dente, IOSONOUNCANE ed Enrico Gabrielli.
Prima di cominciare l'intervista stavo ascoltando “Buonanotte amore” e ho pensato che sembra una canzone d’altri tempi, di quelle che restano sospese e potranno essere ascoltate anche tra un po' di anni senza perdere freschezza.
Secondo me contribuisce ad aver trovato questa cifra un po' senza tempo il fatto che quando mi metto a scrivere debba esserci l'urgenza e un desiderio reale espressivo, ma credo influisca anche il fatto che me ne sia infischiato, dal punto di vista della produzione, dei canoni e questa semplicità, questo lasciarsi andare al gioco, si sentono. Non vorrei dire sia mancanza di ambizione, che pure deve esserci, ma questa leggerezza lo ha portata su quel piano che descrivevi e che molti stanno cogliendo. Di sicuro non c'era un intento aprioristico che il disco si smarcasse dal resto, però, questo no.
Hai detto che questo ritorno è un punto zero, ma tu ne hai avuti vari, in che modo "Mi sono perso nel bosco" lo è?
Ciclicamente mi ritrovo in un punto zero variato, non è mai lo stesso punto zero, e ora mi sento in questo percorso come se fossi tornato ai bisogni e alle necessità espressive che avevo con "Attento a me stesso" (album del 2002, ndr), se vuoi un bisogno ancora più classico dopo l'esperienza di "Plancton" (album del 2016, ndr), laddove avevo giocato con la forma canzone utilizzando l'elettronica. Il punto zero variato di adesso è questo, il momento in cui sento una specie di ripartenza che si affida molto alla semplicità della forma espressiva artistica della canzone, che poi è una forma molto semplice ed è emozionante per questo: qualsiasi persona può scrivere una canzone – mentre sarebbe molto difficile scrivere una sinfonia – però questo fatto che dopo tanti anni riesca ancora a trovare stimoli, giocando intorno alla forma canzone, mi sembra veramente emozionante e poi naturalmente non ho più 25 anni, non ho più le spensieratezze di prima.
Cosa che dici anche nel disco..
Esatto, perché ci sono la relazione con i figli, con la morte e per una serie di fatti mi sento come se stessi iniziando adesso a fare questo gioco dello scrivere le canzoni con un bagaglio diverso.
L’album comincia con la canzone che dà il nome all’album, un pezzo di smarrimento, che avanza a immagini, dalle atmosfere rarefatte, come mai hai voluto che entrassimo così nell’album?
Mi sembrava perfetta, da un punto di vista dantesco mi è sembrato l'incipit più chiaro, ovvero venite con me, questo sarà un gioco dello smarrimento, un gioco del chiedere aiuto all'amore per provare a uscire da queste selve oscure e insieme proveremo a venirne fuori cercando sentieri in diagonale, non strade maestre. È tutto un continuare a uscire e rientrare all'interno di questo bosco, metaforico o meno, e alla fine se proprio si può provare a cercare una ricetta per venirne a capo è appunto il rispetto e la responsabilità del lavoro stesso, il rispetto delle relazioni, la gratitudine delle persone che ti stanno vicine e ti sostengono e soprattutto il ricordo dei cari e l'amore nel suo senso più ampio. Il tutto è mischiato in una nuova onirica che, secondo me, rende il tutto più reale, quasi iperreale.
Prima ho detto rarefatto, ma nel contenuto tu sei proprio attaccato al reale, alla quotidianità, in effetti…
Il gioco è questo, l'altro giorno pensavo che non sono un cantautore, almeno nel senso in venivano intesi una volta. Spesso, durante le interviste, mi paragonano a questo o quest'altro e io, imbarazzato, devo ammettere di non conoscere bene quei riferimenti, perché ho avuto poche fisse da ragazzo: ho ascoltato tanto Paolo Conte, Lucio Dalla, ma altri ce li ho addosso per vari motivi ma non mi ci sono fermato più di tanto. Ora sto cercando di recuperare il tempo perso, però alle volte, a parte strani casi di scrittori più trasversali, i cantautori avevano un linguaggio filtrato da registri quasi culturali/poetici, e quindi era un discorso spesso metaforico, visivo, astratto e io devo dire che non mi trovo tanto in questo tipo di scrittura, per me è esattamente il contrario.
Ovvero?
Io provo a fermarmi su dettagli comuni, di tutti, banali e piccoli, che osservati in un certo modo e accostati ad altri fattori prendono un'importanza diversa e quasi ti accorgi che questa vita, la coazione a ripetere delle nostre vite, si astrae in un percorso quasi religioso.
Pigi Pigi è la canzone che trovo più estranea alla totalità del disco.
In tutta la mia produzione, Pigi Pigi è l'unica canzone non scritta da me e suppongo che il motivo sia questo, però ho insistito perché rientrasse in scaletta, era un tema che mi è molto caro e poi mi è stata donata da un amico compositore, Luca Caserta, che l'ha scritta apposta per me. Io l'ho solo un attimo riadattata perché lui l'aveva fatta voce e pianoforte, ovviamente è una scrittura diversa, una narrazione quasi più nevrastenica, però era importante metterla per non continuare ad alimentare questo gioco devastante dell'abituarsi alle sciagure vicine.
Fai parte di una scena per quello che nel tempo è stato il cantautorato contemporaneo, che rapporto hai con la scena odierna?
Premetto, sono una persona piuttosto pigra, forse uno stereotipo di chi scrive canzoni che istintivamente ha paura di andare a scalfire troppo il proprio sguardo approfondendo troppo altre cose. Io non ho mai ascoltato tanto, il discorso della scena è strano adesso, perché pensa al mondo di Benvegnù, Parente, Donà, Fiumani poi ci sono i nuovi giovani che partono adesso, penso ai Post Nebbia, a Nicolas Zullo. Poi c'è quel mondo più giovane e mainstream in cui faccio più fatica ad addentrarmi.
Come mai?
Sento che c'è una sorta di sclerosi narrativa, mi pare si siano buttati in un mondo urban, affidandosi così tanto a una produzione, al punto che le canzoni stanno diventando dei meme, ci si affida a un linguaggio da social, si fa fatica a raccontare delle storie minime, per questo mi sento più a mio agio coi Dente, coi Brunori, siamo in un limbo…