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‘A passo d’uomo’: Noci e la nostalgia accumulata

“Noci è un paese che a prescindere dalle radici è difficile da lasciare”. Dimartino, nella quarta tappa del suo diario per Fanpage.it, racconta il paesino in provincia di Bari che sorge sulle Murge meridionali.
A cura di Dimartino
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Il paese è una linea orizzontale, dalla statale si intravede il bianco delle case, il bianco del centro. Per tre volte ho fatto questa strada negli ultimi anni, tre concerti in un paese che sento quasi mio. La nostalgia della partenza mi ha già preso e neanche sono arrivato. La avverto anche nei visi dei miei compagni di viaggio, e la rivedrò negli occhi degli amici del Bucobum festival che ci aspettano in piazza per il concerto. Noci è un paese che a prescindere dalle radici è difficile da lasciare, c'è sempre una luce da domenica mattina anche se è un lunedì qualsiasi. Incontro il mio amico poeta Vittorino in piazza tra le tende del mercato. È bello vederlo nella sua piazza, mi sembra di parlare a un monumento vivo, pieno di storie che lo hanno attraversato. Mentre ci muoviamo verso il bar, si ferma a salutare un anziano signore che lo ricambia sorridendo. Mi dice: "lui è Donato, e soffre di quella che chiamo nostalgia accumulata"; gli chiedo: “in che senso nostalgia accumulata?”. Mi risponde che Donato, con  la pioggia d’ inverno o con l’ afa d’estate, passa gran parte del suo tempo in piazza, seduto su una panchina o in piedi vicino a un albero.

Un giorno, incuriosito da quella presenza costante tra i lampioni, il poeta gli chiese: "ma lei è stato molto tempo all’ estero?" e Donato rispose di si, dicendo di aver vissuto gran parte della vita in Germania, sognando ogni notte la piazza di Noci. Per questo passa le sue giornate qui, in pratica sta smaltendo tutta la nostalgia accumulata negli anni all’estero. Me ne vado dalla mia Noci pensando a quanta nostalgia accumuliamo ogni giorno girando in lungo e in largo e a quanto tempo ci vorrà per smaltirla durante la nostra vita.

Mi piaceva riportare qui alcuni versi di Vittorino.

Il penoso ritmare dei secoli

negli avvistamenti dell’ultima ora

quando ai camminatori affrancati

dalle mappe non resta

che l’assillo di un’attesa

l’uomo di spalle, che potrei

essere io, suppone

che la terra non sporchi.

nel sacraio delle sue disfatte

un fruscio di flanella

e neve che sbarra le porte

mio raggio di luce, sul solco

scavato dal bene e dall’essere

l’amore è scomparso.

se ritorna

lo fa in segreto nei sogni

nel dileggio di un inverno spavaldo

negli atti apocrifi

del sottoscala al civico 57

dove, sul piatto muto della

bilancia, resistono al tempo

le fascine per la caldaia

una paletta di ferro, un pallone

un grembiule spiegazzato

verso i sette anni

anch’io volevo un cane.

Di Vittorino Curci, dal libro: Verso i sette anni anch’io volevo un cane (Diario di un logonauta) ed. La vita felice.

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