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Sanremo 2015: la bottega degli orrori

Note semiserie a proposito del cast del prossimo Festival. Rispolverando un vecchio adagio, continuiamo a farci del male.
A cura di Federico Guglielmi
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Povero 2015. Mancano ancora due settimane abbondanti al suo arrivo e già lo si deride, perché porterà con sé quello che ha ottime possibilità di essere il peggior Sanremo della già claudicante storia del Festival. Non avendo ancora ascoltato neppure una canzone bisognerebbe forse non azzardare, ok, ma… insomma, lo schieramento dei venti cosiddetti big non induce all‘ottimismo, checché ne dicano certi colleghi storicamente votati alla genuflessione. Poi, sia chiaro, a me di Sanremo importa il giusto (cioè meno di nulla), ma da professionista dell'informazione musicale non posso far finta che non esista e minimo devo curarmene, specie quando bizzarre concomitanze di eventi portano nell'Ariston-arena personaggi dell'area di mio autentico, genuino interesse. Dagli Afterhours ai Marlene Kuntz, da Carmen Consoli a Max Gazzè, dai Perturbazione agli Elio e le Storie Tese fino a Eugenio Finardi, Cristiano De André, persino Roberto Vecchioni. Quelli, per capirci, che di norma si scrivono da sé i brani che interpretano, che si sono fatti le ossa in sala prove e sui palchi dei club, che sanno (o credono di sapere) come gestirsi e che – giustamente, a mio avviso – schifano la melma delle manfrine catodiche, degli autori di professione, dei finti scandali che sono in realtà tristi operazioni di marketing, di quei maledetti talent che hanno stravolto la percezione dell'attività di musicista da parte dei giovani.

Per le cinque estenuanti serate della prossima edizione, la prima a essere diretta e condotta dal lampadatissimo Carlo Conti, il mio televisore sarà quasi di sicuro sintonizzato altrove, se non spento. I “miei” artisti latitano, il cast è per lo più adagiato sul binomio deprimente-agghiacciante e, in tutta sincerità, ritengo che una ventina di ore della mia vita possa essere investita in modi migliori. D'istinto mi domando come abbia fatto, la famigerata commissione, a tirar fuori una simile bottega degli orrori, ma per comprenderlo sono sufficienti pochi istanti di riflessione. Bypassando la carne da cannone delle “nuove proposte”, e ben sapendo che i veri big del pop nazionale a Sanremo vanno al massimo come ospiti, la lista dei protagonisti è scaturita in primis dalla necessità di adattarsi ai tempi che cambiano attingendo a mani basse nel giro dei talent, si presume per attrarre il pubblico adolescente/post-adolescente e beneficiare della promozione gratuita dei social network. Il resto è invece derivato da un complesso lavoro di vaglio fra riesumazioni, “grandi classici” della kermesse, figure di secondo piano in cerca di maggiore visibilità, un paio di sorprese più o meno improbabili – meglio se coppie – per variare lo schema e un altro paio di outsider per fare colore. Immancabile, infine, l'elemento “chi?!?”, nella circostanza Bianca Atzei, che non è l'unica dei venti a non essere (ancora) su Wikipedia solo perché i gestori del progetto hanno deciso di bloccare la creazione della voce “Lorenzo Fragola” dopo tre tentativi di inserire schede dal “contenuto palesemente non enciclopedico o promozionale”. Per la cronaca, la Atzei si presenta con un pezzo composto da Francesco Silvestre dei Modà – scusate, ma la mia tastiera di rifiuta di digitare Kekko – e questo la dice lunga. Andate avanti voi, che a me viene da ridere.

Benché tutt'altro che impeccabile, l'edizione 2014 non era poi stata tanto pessima; non mancavano abissi di kitscherie e assortiti abomini, ma c'era parecchia gente di spessore. Il pantheon del 2015, invece, fa rabbrividire, e ripropone una volta in più gli annosi interrogativi sul senso effettivo di questo carrozzone dove la musica è solo un pretesto. C'è di mezzo un'antica tradizione, va bene, ma ormai priva di legami con il presente, e pure l'evento mediatico mostra la corda. Tolti la RAI, il Comune di Sanremo, le case discografiche e un tot di papponi che infestano il nostro music-biz, a chi frega sul serio del Festival? A nessuno, al di là dei numeri – che tutti sanno essere una farsa – della platea TV. È solo materia per chiacchiere da bar e da Facebook, magari figlie di una visione e un ascolto di qualche brandello di note e testo mentre si fa altro. Quindi, dato che proprio non mi va di scadere nella retorica tirando in ballo la nota di addio di Luigi Tenco o frasi altisonanti sul fatto che la Musica con la M maiuscola sa per fortuna trovare la sua strada di cultura ed emozione anche senza le rassegne canterine, la pianto e corro a mettere sul piatto Tim Buckley. Non fosse bastata l'Armata Brancaleone di cui sopra, ho appena appreso dell'imminenza di un nuovo album di Giovanni Allevi, e quando è troppo è troppo.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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