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Perché non riusciamo a toglierci dalla testa A Fari Spenti di Elodie

Tra le canzoni più trasmesse in radio, oggi proviamo a spiegarvi perché A fari spenti di Elodie piaccia tanto.
A cura di Federico Pucci
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Elodie (ph The Morelli Brothers)
Elodie (ph The Morelli Brothers)

Prima che emerga dall’acqua biancastra e torbida, prima ancora che cominci a cantare, Elodie ci invita dentro il video di A fari spenti (diretto dai Morelli Brothers) con una citazione degna di una “mente criptica”, forse di un’intelligenza artificiale. Non c’è nulla di oscuro, invece, nelle ragioni del successo della canzone, che sguazza tra le più suonate nelle radio a coronamento di un anno che ha visto il pop italiano tuffarsi nella dance.

A fari spenti è un omaggio implicito alla quarantennale storia della house music, il genere nato in America dalle ceneri della disco e ancora oggi rilevante nei gusti pop e nei club. Lo noti fin dal principio: si sente una tastiera, distorta come se il suono provenisse da una cassetta registrata più volte – effetto nostalgia, in realtà si tratta di un filtro “CutOff” che ci vuole cacciare dentro il brano con virulenza. Gli accordi suonati, un’altalena che oscilla per tutta la traccia fra Sol maggiore e Si minore, hanno un disegno ritmico particolare, immediatamente riconoscibile perché inciso nel DNA di centinaia di tracce che abbiamo ballato per decenni: taa ta-ta taa ta-ta, dice la tastiera di A fari spenti, come già prima di lei migliaia di pianoforti e organetti sincopati sui tasti di un Korg M1. Le variazioni di questo pattern ritmico si sono talmente affermate da diventare un cliché: era il motivo di Gypsy Woman (She’s Homeless) ma anche di Crystal Waters ma anche di Don’t You Worry Child degli Swedish House Mafia, di What Is Love? di Haddaway così come di El Ritmo De La Noche dei Chocolate. Tracce più o meno pop, più o meno annodate alla house, hanno utilizzato la tastiera come i grandi gruppi funk degli anni ‘70 usavano la chitarra ritmica: per spezzare il dominio della cassa dritta e creare così quella cosa tanto incompresa quanto citata, il “groove”.

Marz e Zef, che producono la traccia di Elodie, sanno benissimo che – tradizione o no – questo modo di presentarsi, con un giro di accordi “a vuoto”, è incredibilmente efficace per aiutare l’ascoltatore a fissare nella memoria non solo l’armonia (gli accordi, si è detto, restano pressoché immutati fino alla fine) ma soprattutto il ritmo che dovranno tenere con il corpo se vorranno ballare. Elisa, che con Marz e Zef la traccia la firma, sa ancora meglio di loro che una semplice molecola metrica (taa ta-ta) può diventare una trappola nel giusto contesto melodico: è quello che nel rock e nel metal si fa con i riff di chitarra, e sappiamo bene che con il rock Elisa c’è nata. Al posto di una chitarra, in A fari spenti c’è la voce di Elodie, e il testo è la diteggiatura. “Il cuore – si muove – non cerca – ragione”, canta l’artista, avviluppando il groove con un metro in controtempo: ta taa ta, rispetto al taa ta-ta della cassa e del piano: se stessimo parlando di poesia greca lo definiremmo un “anfibraco” (breve lunga breve) ma per non spaventare nessuno lo paragoniamo alle terzine rappate dai Migos.

Parlare di ritmo e metrica può sembrare eccessivo, quando si tratta di pop: alla fine, una canzone si appiccica alla memoria perché ce la cantiamo nella testa facendola nostra, come ci dicono le scienze cognitive. Ma la musica stimola anche altre parti del nostro corpo, in particolare il sistema motorio, che – balletti di TikTok o meno – è stato chiamato in causa molto spesso, di recente. Il dance-pop non può essere considerato una novità nel Paese che ha dato vita alla italodisco – e da questa, secondo diverse teorie, proprio alla house. Nell’ultimo anno, però, abbiamo assistito a un’escalation del genere nel mainstream, che proprio Red Light (l’EP che contiene A fari spenti) porta a compimento: dall’autunno 2022 che ha visto marciare con la cassa dritta il nuovo percorso di Annalisa e coronare il tormentone Dove si balla, siamo passati a un Sanremo mai così contaminato dai generi musicali da ballare in inverno; in primavera è proseguita poi la proliferazione di omaggi italiani a Born Slippy degli Underworld, con Tilt dei già citati Zef, Marz, Elisa con La Rappresentante di Lista (5 maggio) e poco dopo Un altro mondo di Merk & Kremont con Tananai e Marracash (21 giugno); in estate, addirittura, il pubblico italiano ha scoperto la dance, quella vera (per quanto molto melodica e commerciale) e internazionale, come abbiamo avuto modo di vedere. Ovviamente la lunga marcia in quattro quarti non è cominciata ieri, e le riemersioni della dance nel pop vanno trattate come fenomeni carsici più che riscoperte. Ma a tutto questo Elodie era più che pronta, da This Is Elodie a Ok.Respira fino al più dichiarato progetto dance-pop della sua carriera, Red Light. Perciò, A fari spenti non solo funziona grazie al suo groove, non solo stuzzica i nostalgici delle discoteche di una volta, ma propone all’ascoltatore il piatto più appetitoso: quello che non ha ancora finito di mangiare.

Come se questo non bastasse, la melodia è magistrale nell’usare la scala minore per creare un’attesa continua mai ripagata del tutto. Il ritornello in particolare si posa su una nota, il Fa# (“mani”, “spenti”, “istanti”) che è la più lontana possibile dall’arrivo previsto, quella che desidera arrivare a un Si, che però comparirà fugacemente (“origami”). Questo continuo teasing melodico riflette peraltro il messaggio del brano, la confessione di una persona che si abbatte e si emoziona sguazzando nei ricordi amari, ben consapevole che rimpianto e rimorso vanno a braccetto. Non solo, perché insistendo sulle note di passaggio più che su quelle di atterraggio, la voce bella e imperfetta di Elodie si mette in risalto per il carattere più che per la tecnica.

Insomma, il movimento di A fari spenti è continuo, e a dirlo non sono nemmeno solo il testo, la melodia o il ritmo. Anche il giro continuo dei due accordi sa di risoluzione irrisolta, una dissonanza o consonanza a seconda del punto di vista: il Sol e il Si minore, infatti, sono separati da un intervallo di minore sesta, rapporto che la storia della musica ha dimostrato essere amaro, sì, ma anche estremamente cinetico. Come lo sappiamo? Perché anche quest’accoppiata è un’eredità della tradizione dance: infilato in progressioni più articolate o usato in modo esclusivo come in Coming Home di Armin Van Buuren, un passaggio armonico del genere può perfino illuderci che tutto vada bene, come fosse il miraggio di una tonalità maggiore. Di norma, basta che la vocalist di turno cominci a cantare per cogliere il mood del brano. Elodie, però, gioca un’ultima volta con le aspettative: sul finale, i contorni armonici svaniscono sullo sfondo, la sua voce si posa solo su due note (Sol e Fa#), e a quel punto non sappiamo più dire se “la gamba dondola” per buone o cattive ragioni. Sul dancefloor certe differenze scompaiono, il dolore si mescola con il piacere: anche questa prospettiva, tutto sommato, è una buona ragione per farsi incantare da una canzone.

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