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Natale 2023

Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Last Christmas degli Wham!

Tra l’1 e il 24 dicembre un gioco di sopravvivenza invita i partecipanti a “resistere” senza aver ascoltato Last Christmas degli Wham! A questa tradizione ho dovuto rinunciare a malincuore per provare a spiegare perché questa canzone del 1984, insieme a quella di Mariah Carey del 1994, si sia insediata permanentemente nel nostro immaginario collettivo.
A cura di Federico Pucci
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In un’epoca di divisioni e polarizzazioni, il Whamageddon è ancora capace di unirci, in rete e fuori. Forse l’hai già sentito nominare: consiste in un gioco di sopravvivenza che tra il 1 e il 24 dicembre invita i partecipanti a “resistere” senza aver ascoltato Last Christmas degli Wham! A questa tradizione ho dovuto rinunciare a malincuore per provare a spiegare perché questa canzone del 1984, insieme a quella di Mariah Carey del 1994, si sia insediata permanentemente nel nostro immaginario collettivo. Se sei tra le poche persone ancora sopravvissute al Whamageddon, complimenti: la canzone è attualmente all’ottavo posto della classifica FIMI – e salirà ancora nelle prossime due settimane – quindi devi aver fatto acrobazie per restare ancora in partita. In ogni caso, che tu l’abbia evitata appositamente o meno, probabilmente adori questo classico moderno al punto da non avere problemi a seguire ciò che scriverò facendo ricorso soltanto alla memoria. Se non vuoi perdere, leggi ma non schiacciare play qua sotto.

Quando provo a indagare le ragioni del successo globale e ciclico di certe canzoni, mi concentro spesso sugli elementi che le rendono “senza tempo”: finita la nostalgia, infatti, deve esistere qualcosa che ancori una musica a una sensibilità trasversale e trascendente, e così le permetta di insediarsi in un canone duraturo. Di successi commerciali, infatti, è piena la storia. Ma i tormentoni che travalicano le epoche sono ben più rari. Ad esempio, credo che nessuno abbia dubbi su quale considerare “senza tempo” fra Last Christmas e Do They Know It’s Christmas?, la canzone che nel Natale 1984 negò il primo posto alla composizione di George Michael – il quale peraltro partecipò a entrambe. Eppure, pur avendo ricevuto questa patente di immortalità, Last Christmas è in tutto e per tutto un frutto della sua epoca.

Nell’agosto del 1984 – è fatto noto – George Michael incise da solo ogni singola parte della canzone negli Advision Studios di Londra: armato di una drum machine LinnDrum programmata personalmente, un sintetizzatore Roland Juno-60 e qualche percussione a tema (le immancabili campanelle), il cantautore aveva in mente di mettersi alla prova a tutto tondo, come compositore, interprete, musicista e produttore di una canzone che – ne era certo – avrebbe cambiato l’opinione del pubblico su di lui e sugli Wham. E così fece, dimostrando il suo non era solo pop esuberante in technicolor o strappalacrime, ma qualcosa di più: entrambe le cose insieme, e nessuna allo stesso tempo. Gli strumenti scelti da Michael per accompagnarsi in quest’impresa erano tra i più popolari della sua epoca: li ritroviamo in megasuccessi degli anni ‘80, dal beat elettronico di Thriller di Michael Jackson alle tastiere nebulose di Time After Time di Cyndi Lauper. Una “reference” in particolare potrebbe essere stata Joanna dei Kool & The Gang, uscita un anno prima (novembre 1983), che nel suo R&B sintetico dagli spigoli smussati ricorda il ritmo cadenzato della hit natalizia.

E pur avendo suonato una canzone che più anni ‘80 non si può, George Michael ha anche giocato con la nostalgia, un concetto che peraltro prende piede come gusto estetico pop proprio in quel decennio. Come ho raccontato la scorsa settimana, tanti canoni pop di Natale sono costruiti intorno alla nostalgia: le festività vengono descritte come un tempo ideale di serenità, una pillola d’infanzia che dura nell’età adulta e alla quale si sogna in qualche modo di tornare. L’inglese, però, ribalta su sé stessa questa visione. Il Natale passato della sua canzone non è un idillio, anzi, è il luogo in cui si è consumata la tragedia: il sentimento custodito gelosamente non è quello di purezza e felicità, ma di tradimento e vendetta. La cadenza annuale del Natale, insomma, è solo una scusa per soffrire di nuovo: per questo alla fine del ritornello il cantante sbotta e serve un dolcetto avvelenato con le parole “someone special” (dando per scontato che l’interlocutore così speciale non fosse). Insomma, Last Christmas usa il ricordo, sì, ma non come luogo di consolazione, bensì di dolore e riscatto. Non tutto quello che ci sta alle spalle è piacevole, eppure non possiamo fare a meno di pensarci.

George Michael ci propone, insomma, una curiosa inversione di tendenza, un’innovazione innestata dentro la tradizione, di per sé ottima premessa per catturare la nostra attenzione: se l’arrangiamento suona brioso, se la sua melodia e la sua armonia (un risoluto giro di Do) ci lusingano, perché sentiamo il lamento di una persona tradita? Sicuramente George Michael, cultore del soul, voleva contribuire alla tradizione blues delle canzoni d’amore emotivamente ambigue, che si crogiolano nell’ossessione che le divora. Ma, nel tentativo di creare qualcosa di vicino a Motown e intercettando di traverso il cliché nostalgico del Natale, ha trovato una delle armi più potenti del pop: il sovvertimento dell’aspettativa.

L’inganno più affascinante di Last Christmas, insomma, sta nel mostrarsi così tipicamente espressione del suo decennio, mentre nel profondo è mossa da concetti ed espedienti compositivi antichi. Last Christmas, insomma, è “senza tempo” nel suo DNA. Quando gli Wham! furono accusati di plagio dai detentori dei diritti di Can’t Smile Without You (canzone resa celebre nel ‘78 da Barry Manilow), la causa cadde facilmente quando il musicologo della difesa dimostrò che tutto quello che George Michael aveva attinto dalla tradizione proveniva da molto più addietro, e cioè che nessuna delle due canzoni in disputa l’aveva inventato di sana pianta: il giro armonico è uno standard dal barocco in giù; anche le soluzioni di accompagnamento tastieristico, che in entrambi i brani fluttua tra accordi di sesta, nona o undicesima per arricchire il suono e creare ulteriori impressioni di risoluzione, non sono una novità; alcuni movimenti della melodia (specie nella penultima parte del giro, sopra l’accordo di secondo grado dove Manilow canta “if you only knew” e Michael “to save me from tears”) potrebbero sembrare più sospetti, ma la difesa trovò 60 esempi precedenti a entrambi i brani. George Michael, insomma, aveva attinto da un vocabolario melodico e armonico condiviso. E ne era ben consapevole.

Intervistato nel 1985, dopo la vittoria dell’Ivor Novello Award come miglior autore dell’anno, diceva: “Non mi imbarazza se mi accusano di mancanza di originalità […] Cerco di non imitare progressioni o melodie, ma c’è qualcosa di speciale in quei pattern diventati cliché: la gente se li aspetta. Se sto scrivendo una melodia e mi preoccupo che l’arrangiamento assomigli a qualcos’altro, poi mi dico: Se questo è il modo per farlo suonare al meglio, posso scegliere: o imito, oppure non realizzo il potenziale della canzone”. Nella canzone che sbriciolava l’associazione tra il Natale e il ricordo visto come luogo sicuro, George Michael si affidava al ricordo musicale per trovare il suono della sua prima maturità. Anche le contraddizioni, se così raffinate, fanno di una canzone una creazione senza tempo.

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