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Neima Ezza e l’album scritto ai domiciliari: “Parlo di ciò che ho perso, la felicità è sopravvalutata”

Dopo l’esordio con “Perif”, il membro della Seven 700 Neima Ezza ha pubblicato il suo nuovo Ep “Giù”. L’intervista al rapper qui.
A cura di Vincenzo Nasto
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Neima Ezza a Fanpage.it (ph Claudio Rosa)
Neima Ezza a Fanpage.it (ph Claudio Rosa)

Arrivato come un ciclone nella discografia italiana, la Seven 700 è il collettivo milanese che è riuscito a porre radici nel rap game italiano, travalicando confini, in Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Tutto questo partendo dal quartiere di San Siro, Milano, esattamente da piazza Selinunte, dove un giovane Neima Ezza, alias Amine Ezzaroui, classe 2001, è riuscito a raccontare uno spaccato, prima del quartiere, poi della sua vita. Un viaggio cominciato con "Perif" e che ha visto la pubblicazione di "Giù" lo scorso primo luglio, un progetto nato in un periodo molto complicato, con giovane artista costretto in casa, poiché era agli arresti domiciliari. Ma "Giù" è molto di più di cronache giudiziarie, e differisce anche dalle cronache del quartiere che Neima Ezza aveva deciso di sfoggiare nel suo primo Ep. L'Ep del rapper è il racconto sensibile, quasi malinconico, di un artista che sta evolvendo, nella scrittura (già raffinata) e anche nelle immagini proposte. Un ritratto dell'innocenza trafugata dal proprio corpo, ma anche l'esempio di quanto il racconto sia molto più stratificato e profondo rispetto al clamore mediatico e alla narrazione giudiziaria dei membri del collettivo.

Come nasce Giù?

Giù nasce nel periodo in cui stavo a casa, mentre ero da solo con me stesso. Nessun fonico, nessun beatmaker, solo io. Per questo ha preso il nome “Giù”, perché stando tanto con me stesso ho riflettuto molto su come mi sentivo emotivamente e mi sono dato una risposta. Penso che la felicità sia anche tanto sopravvalutata, una specie di finzione, alla fine ci conosciamo bene solo quando siamo da soli. Con la gente, invece, tendiamo a metterci maschere mentre quando sei da solo fai i conti con te stesso.

È un album che tratta molto il concetto di perdita.

Io sono una persona molto solitaria, anche se sto tanto con gli amici, passo tanto tempo fuori. Però non mi piace andare a ballare, non mi piace stare troppo in mezzo alla gente. Stando tanto con me stesso ho perso anche tanta gente, a volte è destino che qualcuno se ne vada: si nasce e si muore. Quindi c’è anche questa parte un po’ malinconica di me: cerco di descrivere un po’ di tutto, dalla gente che ho perso, il quartiere dove comunque è bello stare anche se diciamo sempre che è bello vivere nel quartiere ma non è bello morirci. Il quartiere ci ha portato a fare cose che non volevamo fare.

Quando è nata invece Basta?

Basta l’ho registrata in Sicilia, quando ero con Seven7oo e dovevamo chiudere il mixtape. Nel pomeriggio gli altri sono usciti e sono rimasto con i fonici: volevo sperimentare qualcosa, uscire dalla mia zona di comfort. In due ore abbiamo chiuso il pezzo ed era una bomba. Quando chiudo i pezzi è perché nascono naturalmente, non perché c’è qualcuno che mi dice: “Devi fare il pezzo così”.

Seven700 è uno dei collettivi più giovani e più rappresentativi della nuova scena musicale. Come vi siete conosciuti?

Noi siamo semplicemente sei amici che hanno imparato a diventare fratelli, sia a livello umano che artistico. È una cosa vera, non creata, non una marchetta: ne vedo pochi come noi.

Il vostro successo musicale è riuscito anche a dare una spinta al quartiere che raccontate?

Il quartiere è sempre lo stesso, le persone sono sempre le stesse, chi nasce lì è ancora lì. Diciamo che la musica ha spronato tanti ragazzini a darsi da fare: tutti hanno un obiettivo. C’è chi vuole fare il videomaker, chi il beatmaker, chi il fonico, non per forza il rapper. La musica ha dato una minima possibilità a un quartiere che stava andando troppo nel degrado. La gente sta aprendo delle attività, Don Claudio Burgio sta aprendo un centro sportivo, quindi sta andando tutto per il meglio.

Cos'è per te casa?

Casa non deve per forza essere dove si abita, può essere una persona o un posto a cui siamo legati, anche un ricordo. Quando dico mi manca casa è perché mi manca qualcosa che però non posso riavere più indietro. Quando siamo tra noi ci piace pensare a quando non avevamo niente, a quanto ci mancano la vita e i problemi di prima, ma non si può più tornare indietro.

In "C’est pas facil" racconti la perdita dell’innocenza.

Mi ha aiutato tantissimo capire le cose prime degli altri, analizzare che non avevo una vita come quella degli altri, perdere quel filino di innocenza che era rimasto. Ho tanti buchi da riempire e tanto ancora da dare. Non credo di essere arrivato al 10-20% di quello che posso dare e fare. Questa roba di non accontentarmi mai mi sprona solo a fare di più.

Ci racconti la tua vicenda giudiziaria?

Ero a casa (agli arresti domiciliari n.d.r) al posto di qualcuno che doveva stare a casa al posto mio. Menomale che ero a casa, potevo finire da un’altra parte. Poteva durare di più, è durata poco, infatti non è che l’ho messa in risalto, nessuna "È colpa dello stato". Doveva succedere, è successo. Mentirei a dirti che è andata bene, che è stato tutto rose e fiori, che stavo bene a casa mentre fuori c’era il sole, al posto di qualcun altro. In quei giorni lì mi hanno detto tutte quelle robe, ma io non ero lì (a commettere i reati di cui era accusato, ndr), come non erano lì Baby Gang e Samy. Eravamo tutti da altre parti. Però siamo quasi alla fine, si spera per il meglio.

In Aiuto canti "Qui in fondo chi ci salva? L'Italia è in mano a Salvini". Come nasce questa barra?

Nasce perché è una cosa che fa parte di me. Sono un ragazzo di seconda generazione, ho fatto le scuole qua, ho gli amici e la famiglia qui. Mi sentivo non tanto di lanciare una frecciatina, ma di descrivere qualcosa che penso ed è nato tutto spontaneamente. È una cosa che mi passa per la testa.

Le polemiche sui live hanno riempito le bacheche social di artisti e di fan nelle ultime settimane. Cosa pensi debba essere un live?

Ci sono tanti modi di tirare in mezzo la gente. Quando tu fai un live, di base, è per far saltare la gente e farla divertire. L’importante è spaccare, in un modo o nell’altro. L’importante è che la gente sotto si diverta, è quello che conta. Poi è figo avere sempre una bella performance, avere qualcosa di iconico, diverso dagli altri.

Intervista di Francesco Raiola e Vincenzo Nasto

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