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Mauro Ermanno Giovanardi rilegge la generazione d’oro dei 90: “Alieni e non allineati”

Mauro Ermanno Giovanardi ha pubblicato “La mia generazione”, un album che rilegge alcune delle canzoni simbolo della generazione rock degli anni 90, dai suoi la Crus ad Afterhours, Bluvertigo, Neffa e Cristina Donà.
A cura di Francesco Raiola
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Mauro Ermanno Giovanardi (foto di Silvia Rotelli)
Mauro Ermanno Giovanardi (foto di Silvia Rotelli)

C'è stato un momento, a metà degli anni 90 che il rock italiano ha vissuto una stagione d'oro, come pubblico e come mezzi a disposizione: Afterhours, Marlene Kuntz, la Crus, Csi, Massimo Volume, solo per citare un gruppi piccolissimo di una generazione incredibile. Una generazione che si è trovata al posto giusto al momento giusto, intuendo alla perfezione i passi da compiere, come, ad esempio, mollare l'inglese, che derivava dalle ispirazioni musicali, e passare all'italiano. Da quel gruppo sono usciti album e canzoni formidabili, per un'esperienza che non ha trovato, successivamente eguali, ma solo qualche coda. Sono cambiati i protagonisti, è cambiata la tecnologia, sono cambiati i mezzi a disposizione.

Qualche settimana fa, però, ci ha pensato Mauro Ermanno Giovanardi, una delle voci più intense di quel periodo, protagonista soprattutto coi La Crus, a rimettere alcuni tasselli a posto, pubblicando, per Warner, un album che si chiama proprio "La mia generazione" e in cui rilegge alcune delle canzoni che secondo lui fanno da cartina di tornasole delle esperienze di quegli anni. Il disco non ha l'ambizione di raccontare la totalità del periodo (ci ha raccontato della scelta di non inserire, ad esempio, brani in dialetto), ma sicuramente dà alcune coordinate che possono aiutare a muoversi in quel mare magnum anche chi non l'ha vissuto appieno. "La mia generazione" è una fotografia bene a fuoco di un momento importante della musica italiana e uno dei suoi punti di forza sta nella voce inconfondibile di Giovanardi e nella sua capacità di rileggere e riarrangiare quelle che sono vere e proprie pietre miliari, facendosi, talvolta, aiutare dai protagonisti dell'epoca.

I The Who cantavano "Talkin' ‘bout my generation": ecco, parlaci un po' della vostra generazione?

Siamo stati una generazione aliena e non allineata, nel senso che tutti noi arrivavamo da esperienze altre, che non erano né quella dei cantautori degli anni 70-80, né quella della canzone italiana sanremese in playback. Tutti noi eravamo più vicini alle esperienze dei centri sociali e dei network, più alle autoproduzioni e alle etichette indipendenti che alle major, per cui arrivavamo da un percorso altro: i nostri riferimenti erano i gruppi inglesi e americani, cantavamo in inglese, poi è successa una cosa che succede solo quando ci sono delle rivoluzioni importanti, una congiunzione astrale favorevole che ha fatto sì che tre componenti: la scena, la discografia e il pubblico, ci facessero capire l'importanza di renderci comprensibili cantando in italiano.

E questo cosa ha portato?

Questa maturazione ha fatto sì che le major mettessero sotto contratto questi gruppi di una scena altra. In questo modo abbiamo avuto più visibilità e questa visibilità ha chiamato in gioco un pubblico che, secondo me, era orfano di gruppi che facessero quelle cose che loro ascoltavano, però cantate nella propria lingua. Sono queste tre componenti sono state quelle che hanno fatto sì che questa congiunzione fosse favorevole. Nonostante tutto, quindi, queste canzoni un po' storte, non allineate, aliene rispetto alla discografia ufficiale, hanno avuto la possibilità di aver visibilità: tutti noi siam passati da concerti con poche centinaia a live con migliaia di persone.

Come ti sei orientato nel mare magnum di quelle produzioni incredibili?

Mi sono orientato mettendo alcuni paletti, purtroppo: nel senso che avendo lavorato in questi anni così tanto sull'espressione della mia voce non mi potevo permettere di mettere 11 canzoni in italiano e una in dialetto napoletano, ad esempio. Mi è dispiaciuto tantissimo, quindi, lasciare fuori un pezzo degli Almamegretta, però il napoletano o lo sai o non ha senso. Quella esperienza lì, dei gruppi che cantavano in dialetto, era stata importantissima, anche prima di quelli che cantavano in italiano: diciamo che a livello cronologico sono state sdoganate prima le Posse, che facevano brani in italiano, poi i gruppi in dialetto, e poi tutti noi che avevamo una cultura più rock.

E nella selezione dei pezzi, invece?

Eh, a quel punto o fai l'enciclopedia o scegli per forza alcuni brani: già 13 a livello produttivo, di costi e tempo, sono tanti pezzi. Alcuni sapevo già che sarebbero entrate: "Lieve", "Huomini", "Non è per sempre", "Forma e sostanza", "Lasciati", "Cieli neri", "Stelle buone", ad esempio, però non potevo lasciare fuori un pezzo dei Casino Royale. All'inizio non sapevo se rifare un pezzo dal disco dei Sangue Misto o di Neffa e lì mi sono fatto prendere dal cuore, perché quel pezzo ["Aspettando il sole", ndr] mi piaceva tantissimo. Volevo che dentro ci fosse comunque qualcosa dell'esperienza hip hop.

Che libertà hai avuto nel riarrangiare le canzoni? Hai sentito prima qualcuno o li hai messi al corrente solo a giochi fatti?

Nooooo, a loro ho fatto ascoltare il brano finito: mi sono preso tutte le libertà che volevo. Solamente prendendomi tante libertà potevo fare un disco che non fosse di cover ma di versioni.

E per quanto riguarda il canto? Hai scelto che nessuno dei tuoi ospiti cantasse un brano proprio, in un gioco di specchi che è anche cartina di tornasole del gruppo che eravate.

Anche qui li ho proposti, nel senso che uno dei paletti era che su 13 brani non più di 4 dovessero avere gli ospiti, se non non sarebbe stato più un mio disco. Mi sembrava divertente il fatto che nessuno di loro cantasse un brano proprio, sia per una questione di divertimento che per sottolineare proprio l'unità della scena. Io, Samuel, Manuel, Mimì [Emidio Clementi dei Massimo Volume, ndr] eravamo tutti Mescal, ci si vedeva sempre: con Manuel ci conosciamo dall'86, per dire. Infine mi sembrava, mettendomi nei loro panni, di quello di chi fa il loro lavoro, che secondo me li avrei facilitati di più facendogli cantare una canzone non propria, piuttosto che una canzone loro, che magari avevano interiorizzato per 20 anni.

Poi, però, c'è Rachele Bastreghi dei Baustelle, l'unica che non fa parte di quel gruppo, ma parte di una band che forse è tra quelle che ne ha raccolto il testimone?

Beh, sì, inizialmente non sapevo se mettere dentro anche un pezzo dei Baustelle, ma erano troppo a ridosso del 2000, però se c'è un gruppo che è figlio legittimo di quella scena lì sono proprio loro. Avevo chiesto anche ad Alberto dei Verdena, perché anche loro sono figli di quella stagione, speravo che mi dicesse di sì, ma immaginavo che non se la sarebbe sentita. Con Rachele, invece, erano anni che avremmo dovuto fare una cosa insieme e questa è stata l'occasione giusta.

Quando si fa una scelta del genere si rischia di porgere il fianco al gioco "Perché quella sì e quella no?". Ti è successo?

Tra i cantanti, ti dirò che non è venuta fuori. Tutti quelli che ascolteranno il disco capiranno che non potevo farlo di 30 brani e dovevo fare necessariamente delle scelte e che le fai il più affine a quello che sei tu. Per me è stato davvero un azzardo approcciarmi a un pezzo hip hop, ma anche a pezzi come "Forma e sostanza" e "Il primo dio". Sono rimaste fuori veramente un sacco di cose, da un pezzo dei Virginiana Miller, a uno dei Tiromancino, dei Modena City Ramblers, degli Elettrojoyce e uno degli Scisma. Per quanto riguarda il pubblico, qualcuno, quando uscì la tracklist, disse "Ah però ci stavano bene anche questi o quelli" ma appunto, vale il discorso di prima, non potevo mettere tutto.

Se dovessi scegliere una sola canzone non tua che avresti voluto scrivere?

Forse direi "Del Mondo" dei CSI e di quelle del disco direi "Non è per sempre".

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