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Vent’anni prima di “9”: gli esordi dei Negrita

Un nuovo album dei Negrita è un’ottima occasione per aprire una finestra sui primi passi ufficiali della band aretina, attorno alla metà degli anni ‘90. Un altro mondo.
A cura di Federico Guglielmi
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Il 24 marzo i Negrita pubblicheranno il loro nono lavoro di studio, raccolte ovviamente escluse, intitolato senza grande fantasia “9”, del quale circola già da qualche settimana il singolo “Il gioco”. Più che scontato l‘ennesimo trionfo in classifica, dato che il quintetto aretino è forse il gruppo portabandiera, assieme ai Negramaro, del rock italiano in chiave nazionalpopolare (a scanso di equivoci: Vasco Rossi e Ligabue sono solisti e i Modà non sono rock); quella musica, per capirci, che pur non nascondendo stretti legami con il pop, in termini di edulcorazione e modalità promozionali, non dimentica del tutto le sue radici. Già, perché un tempo Paolo Bruni detto Pau (il frontman), Enrico “Drigo” Salvi (la prima chitarra) e Cesare Petricich (l‘altra chitarra), i superstiti dell’organico iniziale aggregatosi ufficialmente nel 1991, erano una garage-band che sudava in cantina e sognava l‘abbraccio ideale di una platea assiepata sotto il palco. Qualcosa di autentico, insomma, che nasceva dalla passione, dalla noia della vita in provincia e dal bisogno di rivalsa invece che dietro le quinte dei talent show o negli uffici marketing; basti pensare che l‘originaria incarnazione dell‘ensemble, allestita da Paul e Cesare negli anni ’80 e titolare di un unico 45 giri oggi naturalmente introvabile, si era battezzata non senza autoironia Gli Inudibili.

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A onor del vero, i Negrita un po‘ furbetti lo sono stati fin da quel 1994 nel quale esordirono con l‘album omonimo: parla chiaro il videoclip del brano apripista “Cambio”, in cui i cinque appaiono nudi (palese il rimando/omaggio ai Red Hot Chili Peppers), o in generale all’atteggiamento “di rottura”, meno plateale ma comunque affine a quello dei corregionali Litfiba, reduci dalle affermazioni di massa prima con “El Diablo” e poi con “Terremoto”. Intrecci anche reali, quelli con la compagine di Piero Pelù e Ghigo Renzulli: “Negrita” era stato inciso nello studio I.R.A. di Firenze con il sound engineering di Fabrizio Simoncioni, la stessa I.R.A. curava il management e il produttore Fabrizio Barbacci – che di Pau e compagni è ancora l’eminenza nient’affatto grigia – vantava un cruciale passato come chitarrista dei Moda (senza accento) di Andrea Chimenti, la cui carriera – tre LP fra il 1986 e il 1989 – si era svolta sempre sotto l‘egida dell‘I.R.A., che dei Litfiba era all‘epoca l‘etichetta. Per quanto riguarda la casa discografica, infine, i Negrita avevano trovato subito asilo presso la BlackOut, il sottomarchio “alternativo” di quella PolyGram che pochi anni dopo sarebbe stata acquisita dalla Universal: un rapporto ultraventennale che non si è mai interrotto e che, evidentemente, vede la piena soddisfazione di entrambe le parti.

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Ma com’erano, i Negrita di due decenni fa? Senza alcun dubbio più rock nel senso “rollingstonesiano” del termine e non c‘è da stupirsene, visto che per il nome si erano ispirati a una canzone contenuta in “Black & Blue”: più crudi e più cattivi, benché avessero nelle loro corde le ballate avvolgenti e le melodie accattivanti, più blues/hard e all’occorrenza funk, con il pop a recitare un ruolo non da comparsa ma nemmeno da protagonista. Una fase creativa testimoniata dall‘album del 1994 e dal mini-CD “Paradisi per illusi” – di impronta un po‘ più “psichedelica”, con tutte le virgolette del caso – edito l‘anno seguente; in mezzo, l‘importante collaborazione con il già affermatissimo Ligabue nel pezzo “L’han detto anche gli Stones”, inserito nel suo “A che ora è la fine del mondo?”. Riascoltati adesso, i due lavori si rivelano figli di quei lontani giorni, non solo per i temi affrontati nei testi – ad esempio “Militare”, che si scaglia contro il servizio di leva obbligatorio: all‘epoca, l‘incubo di quasi tutti i giovani – ma anche per le trame strumentali e l‘approccio canoro; il tutto, però, misto a una freschezza, un‘urgenza, una voglia di esprimere qualcosa tipiche di chi sta cercando la sua identità personale e sociale. Non so davvero come sarà “9”, ma non mi aspetto il sacro furore che emerge, pur mediato dalle circostanze e non privo di ingenuità, dal repertorio dei vecchi(ssimi) Negrita; quelli erano ragazzi più o meno venticinquenni con il fuoco dentro e il futuro da scrivere, questi sono signori di mezza età che si barcamenano, a volte dignitosamente e a volte non proprio, tra la nostagia di ciò che erano e gli obblighi impostigli dal successo nel Circo Pop. Chissà se dal vivo, almeno ogni tanto, suonano ancora “Corvo nero” o l‘adattamento in italiano di “Peace Frog” dei Doors.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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