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Subsonica: il futuro dietro le spalle?

Fuggiti per fortuna dal loro “Eden”, i Subsonica sono tornati con un disco in bilico fra luci e ombre. Impossibile, per chi ha vissuto la nascita e la crescita della band torinese, non provare nostalgia.
A cura di Federico Guglielmi
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È notizia di giovedì scorso che il nuovo album dei Subsonica, commercializzato il 23 settembre, è subito schizzato in vetta alla classifica nazionale. Un successo relativo, visto quanto i numeri delle vendite siano oggi risibili, ma comunque un successo, oltretutto per nulla scontato: sappiamo bene come di questi tempi tutto corra maledettamente veloce e quindi una band che tra un disco e l'altro lascia passare tre anni e mezzo – tanti ne sono trascorsi da “Eden”, che a fine 2011 era stato peraltro ristampato in un'edizione più ricca – rischia di perdere il treno. Settimo lavoro di studio di una carriera che fra due anni festeggerà il ventennale, “Una nave in una foresta” ha offerto esattamente ciò che ci si poteva aspettare dal quintetto torinese: un set di canzoni pop, confezionate con cura e mestiere, ottime per giustificare l'ennesima tournée spettacolare – sul piano della tecnologia così come dell'interazione con le platee – dalla quale sarà magari ricavato – è una supposizione – un CD dal vivo con inediti che sarebbe addirittura il suo quarto.

Quando costruiamo una canzone – un termine al quale non attribuiamo significati negativi, perché a noi le canzoni piacciono – lo facciamo sulla base di un background derivato dal nostro estremizzare in termini strumentali. Tutto è spontaneo, non ci sono calcoli. La sintesi, cioé la capacità di metabolizzare e sintetizzare i vari stimoli, è l’elemento stilistico principale dei Subsonica, e fa sì che un pezzo possegga la capacità di intrigare che spesso manca, invece, a brani studiati per essere hit. Ci muoviamo molto bene in tale ambito, soprattutto grazie alle forti potenzialità melodiche della voce di Samuel”. Ciò mi fu detto, nel giurassico maggio del 1998, da quel Max Casacci che dei Nostri è il principale stratega. All'epoca il gruppo aveva appena avviato la sua folgorante ascesa e a quell'intervista si accompagnò la prima di una lunga serie di copertine di giornali. Lo affermo senza alcuna remora: per una manciata d'anni, alla fine dei ‘90 ma anche nello scorcio iniziale del terzo millennio, i Subsonica sono stati grandissimi e il loro “Microchip emozionale”, AD 1999, merita un posto fra gli album di rock (in) italiano più brillanti in assoluto, ma da un pezzo praticano soprattutto l'arte dell'autoriciclaggio. Sia chiaro, non li colpevolizzo per questo: avendo avuto la rara capacità di ideare uno stile personale e riconoscibile, ritengo che abbiano pieno diritto di speculare in eterno sulle originarie, felici intuizioni, sempre che riescano a proporre canzoni degne del glorioso passato. Quello che però dovrebbero forse fare, secondo il mio pur discutibilissimo parere, è non continuare a salire sul pulpito atteggiandosi a “illuminati” che a ogni passo aprono chissà quali fantasmagorici orizzonti: è marketing, ok, ma… insomma, non si esageri, perché ormai da parecchio il contesto in cui l'ensemble inventa non è la musica ma i suoi accessori: gli allestimenti del palco, i video, le modalità di promozione, il rapporto con la Rete.

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Prima di ascoltare “Una nave in una foresta” ho riaffidato al lettore CD “Eden”, che si è confermato tremendo proprio come lo ricordavo. È stato dunque confortante scoprire che il suo successore riguadagna posizioni, spingendo meno sul pedale del kitsch e cercando di recuperare in sobrietà: eloquente che la conclusiva “Il terzo paradiso” ospiti un artista vero quale Michelangelo Pistoletto e non, come ne “La funzione” di “Eden”, i Righeira. Poi, certo, l'apparato strumentale rimane maestoso e a tratti il gusto tamarro/coatto/truzzo/maranza fa tristemente capolino (l'uno-due “Specchio”/“Ritmo abarth” distilla orrore puro), ma nelle dieci tracce – in un disco della band non ce n'erano mai state così poche, e il dato fa riflettere – si respira anche aria di Subsonica classici, con i rimandi del caso a brani già scritti e suonati. Una formula collaudata, quella della centrifuga new wave pop dance reggae electro drum‘n‘bass e quant‘altro, come al solito studiata in tutti i dettagli benché meno incisiva del solito per quanto concerne i testi, che scorre fluida e in alcune circostanze cattura maggiore attenzione. Senza tanti giri di parole, nel gruppo si riscontra al momento solo routine di classe e non modernità, oltre all'impressione che il suo futuro sia dietro le spalle. Ovvio che ci si può accontentare del presente, ma il godimento sarà sempre… “così così”, come canta un altro cui i consensi di massa hanno sedato la voglia di azzardare.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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