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No, Sanremo non rappresenta al meglio l’Italia musicale (ma le colpe sono condivise)

Sanremo è ancora una volta molto ‘amore’ e ‘tradizione’ e si perde un pezzo di musica che nel 2016 ha raggiunto anche un pubblico più mainstream. Ma di chi è la colpa? Di chi sceglie o di chi decide di escludersi a priori?
A cura di Francesco Raiola
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Il Teatro Ariston durante il Festival di Sanremo 2016 (LaPresse - Andrea Negro)
Il Teatro Ariston durante il Festival di Sanremo 2016 (LaPresse – Andrea Negro)

Tradizionale. Ho letto alcuni pezzi sull'ascolto in anteprima delle nuove canzoni del prossimo Festival di Sanremo e in molti ci ritroviamo in questa parola, forse la più abusata – dopo "amore", sia chiaro – quando parliamo "della kermesse più impostante della musica italiana". Quindi, insomma, che ci sarebbe di nuovo? Niente, se non fosse che amiamo guardarci attorno e della musica ne abbiamo fatto un lavoro, partendo dalla passione e dalla curiosità. Vale lo stesso anche per Carlo Conti che non è l'ultimo arrivato, anzi, e che si trova a fronteggiare una macchina enorme, quello che ogni anno ci si aspetta sia il carrarmato di una delle settimane di febbraio e che, puntualmente, scatena le critiche a un sistema che ha degli obiettivi da raggiungere e che, però, alo stesso tempo puntano il dito se lo share cala di 1 punto rispetto all'anno precedente o se la prima puntata fa un milione in meno.

Eppure una via di mezzo la si potrebbe trovare, cioè, è evidente che Sanremo rappresenta solo una parte – e tendenzialmente sempre la stessa – della musica italiana, dando al pubblico quello che il pubblico vuole e che puntualmente ascolta in radio tutto l'anno, cercando di mantenere una quota alternativa che alternativa, in realtà, lo è sempre poco, visto che chiunque calchi quel palco tenda, come dire, a normalizzarsi. E così, ad esempio, il rap è sempre quello un po' melodico e buonista che poco rappresenta quello che alla fine finisce anche nelle posizioni alte della classifica – ma che la radio la vede dal cannocchiale – (chiedere a Salmo e MarraGuè, per esempio). E così capita che nonostante Clementino porti una delle canzoni più ‘diverse' del lotto, non riesce a essere il Clementino migliore.

In questi ultimi anni il pop italiano ‘da classifica' si è spostato molto verso sonorità più Edm ed elettroniche (che l'Edm e l'elettronica ci perdonino), di quell'elettronica à la Coldplay, giusto per citare il gruppo da cui maggiormente hanno acquisito i nostri ("A Sky Full of Star" per intenderci) e che appiattisce non di poco il panorama musicale italiano. I dischi ormai non si vendono più e i fenomeni sono pochi, almeno nel campo del cosiddetto mainstream. La situazione è talmente un piattume, che il 2016 è stato l'anno in cui alcuni si sono accorti del mondo indipendente, quello che ormai ha un folto seguito (sebbene lo si definisca ‘underground') e che riesce a fare un pop che, sorpresa, si è scoperto essere anche radiofonico. Un uovo di colombo che deve non poco a qualche radio più attenta (Radio Deejay?), seguita a ruota dalla capacità di alcuni dei protagonisti di quella scena di fare rete, ma rischiando di restare imbrigliato in un meccanismo che non perdona. E così Tommaso Paradiso, leader dei Thegiornalisti, si ritrova nientedimeno che sulle copertine di gossip per una foto con Emma. E il punto è anche questo, ovvero il rischio di buttare tutto in vacca.

C'è un fervore enorme in un ambiente che da anni, decenni, cerca di farsi spazio e che se ne frega di quella posizione assurda per cui la notorietà sarebbe, di per sé, una cosa negativa, e così, guardando al meglio del pop italiano cerca di fare cose di qualità ma fruibili al grande pubblico e che escano dalle dinamiche cuore-amore che riempiono i testi di quello che ascolterete tra qualche settimana. Testi che talvolta sono scritti da autori bravissimi, ma che rasentano il compitino di terza media, specchio di un'Italia che se ne frega dei libri e che ha difficoltà a confrontarsi con un pubblico adulto, ma che viene percepito come incapace di andare oltre la sintassi più semplice e le 100 parole più presenti nei vocabolari della media nazionale. E così, a parte qualche eccezione (Ermal Meta, Gabbani, lo stesso Clementino) è un proliferare di frasette e costruzioni insipide e didascaliche che non danno alcuno spunto.

Ma di chi è la colpa? Ecco, forse l'asino casca pure qua. Sanremo è una macchina complessa e affascinante, uno spettacolo che parte dalla musica per allargarsi, che è anche cartina di tornasole di un pezzo di Paese, ma il sospetto è che Conti debba fare i conti con una selezione che non offre molto di più, quasi che chi propone i pezzi (autori, cantanti, case discografiche?) non ci pensino proprio a rischiare un po'. E chi potrebbe farlo non si avvicina neanche al festival, onde evitare di fare la fine dei La Rua, eliminati perché incompresi da chi doveva giudicare (ma la cui canzone è stata poi riammessa per vie traverse, ‘a furor di popolo').

Carlo Conti lo ha detto chiaramente nei giorni scorsi e lo ha ribadito ai nostri microfoni: uno dei problemi principali è che i gruppi non si presentano e quindi è meglio levarsi dalla testa di vedere sul palco quelli che lo scorso anno hanno fatto un po' di clamore, tipo i citati Thegiornalisti, ma anche Ex-Otago, Cosmo, Motta e Calcutta. Non parliamo di uno come Iosonouncane, autore di uno degli album più belli, ricercati e, sì, complessi del 2015 (e degli ultimi anni) che forse quel pubblico non potrebbe mai capire, ma di gente che è passata in radio e in tv e pare sia anche piaciuta: "Naturalmente non puoi rappresentare tutta la musica italiana – ha detto Conti – e mi dispiace che certe sfaccettature e certi sapori non vengano proprio presentati, forse perché alcuni artisti hanno paura di perdere quel loro mondo e i loro fedelissimi". Benissimo, Conti ha ragione, ma se quei gruppi rinunciano assolutamente a tentare la strada Sanremo forse un po' di colpa ce l'ha pure chi in questi anni ha cambiato senza cambiare veramente. In venti giorni sono usciti o usciranno album di cui si è molto chiacchierato, album belli, poetici, attuali, che rappresentano un bello spaccato dell'Italia musicale: i Baustelle, Mannarino (subito primo in classifica), Brunori Sas – un album incredibilmente bello -, uscirà Diodato, che un Sanremo l'ha fatto con poca fortuna, ma anche aertisti come Mecna, che forse, però, in quel palco non vedono altro che il supermercato della musica italiana, qualcosa che guarda più al contenitore che al contenuto.

Insomma, il discorso, gira e volta, è sempre quello: Sanremo, non potendo più essere Ferro, Liga e Vasco, è e deve essere Al Bano, D'Alessio, Mannoia e pure una selezione dei talent (una selezione!), ma potrebbe anche permettersi di guardarsi con un po' di autocritica e chiedersi se quelle 22 canzoni siano veramente il meglio che l'Italia offre, se quello che abbiamo ascoltato ieri sia veramente uno spaccato credibile di quello che si ascolta oggi (Bernabei? Atzei? Elodie? Veramente?). Se poi è il meglio che hanno offerto le proposte, beh, chapeau, la nostra massima solidarietà a Conti e a chi fa il meglio che può con quello che ha. Tanto Sanremo è Sanremo e anche quest'anno sarà il caso televisivo dell'anno, come sempre.

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