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I Quartieri: dream pop all’italiana

Dopo lunga attesa, esce finalmente il primo album de I Quartieri: uno stimolante incontro fra il cosiddetto dream pop e la canzone d’autore, involontariamente tenuto a battesimo dal personaggio più conosciuto di Svevo.
A cura di Federico Guglielmi
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“L’etichetta piccolissima di musica bellissima. Quella della crisi. Parental advisory: stampa, produce e diffonde materiale fonografico. Organizza eventi, agita le acque. Ci prova”. Così il manifesto della 42 Records, ma magari bisognerebbe cambiare qualcosa. Non la “musica bellissima”, asserzione che seppure un po’ immodesta pare tuttora azzeccata, bensì il “piccolissima”: vero che si tratta di una realtà artigianale gestita da due persone, ma la sua scuderia vanta almeno due artisti di discreta rilevanza – I Cani e Colapesce – e da un po’ anche un contratto di distribuzione con la Universal. Insomma, quel primo superlativo ha il sapore di un basso profilo non in linea con la realtà dei fatti. Nell’attesa di festeggiare il sesto compleanno, la label di Emiliano Colasanti e Giacomo Fiorenza ha però confermato la fondatezza del secondo superlativo, pubblicando il primo album de I Quartieri: un’uscita certo sospirata, visto che da quando la band capitolina si presentò con il mini “Nebulose” – sei brani disponibili solo in download – sono trascorsi tre anni. Un’enormità, per questi giorni in cui tutto corre maledettamente e inutilmente veloce, benché a preparare il ritorno fosse stata regalata, sei mesi fa, una riuscita cover de “L’aquila” di Lucio Battisti realizzata assieme a Colapesce.

Nei negozi da martedì prossimo, ma intanto ascoltabile in anteprima, “Zeno” è l’ennesima dimostrazione di come lavorare con lentezza possa giovare e non costituire un handicap. Senza la frenesia di bruciare le tappe, i ragazzi hanno infatti avuto la possibilità di perfezionare il loro progetto, giungendo alla fine a una sintesi davvero brillante per equilibrio, intensità e autorevolezza. Non è uno stile alla ricerca del facile consenso, quello di Fabio Grande e compagni: è dotato di un notevole impatto estetico, grazie a soluzioni morbide e avvolgenti dove suoni elettrici e acustici sposano trame elettroniche dal volto umano, ma punta a un coinvolgimento più profondo, a una seduzione che si basa sulle melodie e sulle atmosfere suggerendo analogie con quella evocata dai sogni.

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Non a caso si parla di “dream pop”, ovviamente “all’italiana” a causa dei testi nella nostra lingua: una scelta che si è rivelata vincente tanto sul piano poetico quanto sotto il profilo dei contenuti. Non sarebbe stato molto opportuno, del resto, citare a sproposito nel titolo il protagonista del più famoso romanzo di Italo Svevo, che secondo il frontman “aveva il grande limite di non riuscire mai a ribellarsi perchè non aveva capito bene cosa rivendicare. Non c’è inadeguatezza o debolezza nel tema del disco. È un modo per dire che, se vuoi, il gioco è nelle tue mani, è un richiamo alla partecipazione onesta alle cose che ti scorrono davanti, al di là dei risultati che puoi raggiungere, in tutte le cose della vita. In questo senso è anche un invito a non prendersi troppo sul serio, a non farsi troppi problemi, a manifestare i propri desideri senza troppe paranoie. Ora non c’è più nulla da perdere, se mai c’è stato: tanto vale giocarsi le proprie carte e stare al mondo per quello che si è. E comunque andrà, andrà bene. Se oggi esiste una rivoluzione è più individuale che collettiva, a dispetto della sociologia contemporanea dei mass media e dei social network”.

Concettualità e musica ricercata, quindi. Versi di un certo spessore e melodie insinuanti e non banali. Il tutto sviluppato in modo corale, a ribadire l’assunto di tre anni fa che recitava: “I Quartieri sono un gruppo travestito da cantautore o un cantautore travestito da gruppo”. Un ibrido, insomma, che se da un lato può suggerire più o meno vaghe analogie con esperienze americane (dai Grizzly Bear ai Deerhoof fino ai Fleet Foxes, passando per il Beck meno storto), dall’altro sembra volersi riallacciare alla vecchia, gloriosa “scuola romana” dei vari Riccardo Sinigallia, Niccolò Fabi e Filippo Gatti. In ogni caso, una formula che idealmente rimanda a dieci/quindici anni fa, a quando il termine “indie” era di norma associato a canzoni ispirate e creative e non, come troppo spesso accade oggi, a frivolezze per post-adolescenti che non vogliono rassegnarsi a diventare adulti. Affermare che se ne sentiva la mancanza non è soltanto una questione di pur comprensibile nostalgia.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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