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Garrincha Loves Roma

Cinque artisti più o meno chiacchierati dell’etichetta forse oggi più amata dell’indie rock italiano in trasferta nella Capitale. Si è trattato di sicuro di un successo, anche se sulle sue luci si allungano parecchie ombre.
A cura di Federico Guglielmi
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La Garrincha Dischi è una ormai nemmeno tanto piccola etichetta con sede vicino Bologna. Esiste dal 2008 e finora ha prodotto una quarantina fra album ed EP che spaziano dal rock di vario genere al cantautorato più o meno bizzarro: da 4fioriperzoe a 33 Ore, da Le-Li a ManzOni, da L’Orso a The Walrus passando per I Camillas, Lo Stato Sociale, Matteo Costa (che della label è anche il boss), Magellano e L’officina della camomilla, fino alle raccolte a tema “Il Natale (non) è reale”, “Il calendisco” e “Il cantanovanta”. A caratterizzare il tutto, il clima quasi familiare – sembra proprio che in scuderia non ci sia competizione interna – e una lodevole cura per le vesti grafiche dei CD, spesso davvero deliziose: l’impressione è insomma quella di un progetto artigianale gestito con autentico amore e con un’apparente naïveté che suscita simpatia. Se tutti i dischi brillassero per qualità musicali sarebbe il massimo, ma visto come vanno le cose l’ipotesi è francamente poco realistica. Il dato di fatto, comunque, è che da un paio d’anni la Garrincha è seguita con crescente attenzione dagli addetti ai lavori e dal pubblico dell’indie rock e non solo, tanto da essere divenuta, almeno per alcuni, una specie di marchio DOC.

Nulla da stupirsi, dunque, dei mini-festival organizzati in varie città: Torino e Bologna l’anno scorso e Roma e Firenze in questo mese di luglio, il primo domenica scorsa e il secondo il 23/24. Occasioni di incontro per una platea soprattutto giovanile che nelle proposte dell’etichetta trova evidentemente qualcosa di più di semplici canzoni. Di questo si è avuta prova nella Capitale, con un concerto fissato alla Festa dell’Unità di Parco Schuster che ha seriamente rischiato di non svolgersi a causa di un annullamento per problemi tecnici a quanto pare inesistenti. La tenacia di chi si doveva esibire, l’impegno del promoter Ausgang e la grande disponibiltà dell’Angelo Mai, sostenuti dal tam-tam della Rete che ha fornito le notizie sul cambio di location, hanno trasformato l’iniziale frustrazione in un notevole exploit: dalle 22 all’una e mezza, il locale di Via delle Terme di Caracalla si è così riempito di ragazzi per lo più venti/trentenni che, per l’intera serata, non hanno lesinato in applausi, cori e balli. Un’atmosfera di genuino benessere, contagiosa per tutti i presenti, che ha costituito il valore aggiunto di uno spettacolo tanto efficace in termini di scambio emotivo/comunicativo tra chi era sul palco e chi ci stava davanti da non farne notare i limiti. Limiti innegabili, volendo valutare le performance con un minimo di distacco.

Hanno aperto i Magellano, da Genova, artefici di un hip hop meticcio che vanta un’apprezzabile irruenza ma, nonostante gli sforzi, si perde in un frullato di ammiccamenti synth-pop, flow zoppicante e soluzioni che fanno pensare a una mezza parodia. Meglio dal vivo che in studio, in ogni caso: discorso che vale anche per i milanesi L’officina della camomilla, la cui bella attitudine spigolosa e casinista – chi ricorda i Libertines di Pete Doherty? – è purtroppo in parte vanificata dall’approccio canoro all’insegna di un’irritante indolenza e da un atteggiamento filo-ribelle che ci si augura davvero sia autoironico. Momento globalmente migliore del lotto il set de L’orso, ancora da Milano: cantautorato pop affine a quello del più famoso Dente, con arrangiamenti policromi e una pregevole capacità di tingere talvolta di gioia le loro malinconie. Da solo con la chitarra, il romagnolo Brace ha invece intrattenuto gli spettatori fra un gruppo e l’altro, ottenendo riscontri positivi a dispetto di una formula pop da cameretta esile e risaputa. Ultimi, l’attrazione Lo Stato Sociale, forti di buone trovate sceniche – azzeccata, ad esempio, l’idea del microfono che passa da un membro all’altro – e di un bel dinamismo: il rock elettronica saturo e incalzante dei cinque bolognesi è però banale, così come la loro indole “cazzona” è troppo pronunciata per far credere che i sermoni “politici” scanditi/declamati non siano costruiti a tavolino solo per strappare facili consensi.

Messa così, e rimarcando le carenze di intonazione, estensione, carisma e/o espressività di tutti i cantanti, il successo di “Garrincha Loves Roma” potrebbe stupire. Oltre che nel clima euforico di cui si è detto, senza dimenticare la foga e l’entusiasmo profusi dai musicisti, la chiave potrebbe essere nei testi: benché quasi sempre elementari e grezzi sul piano poetico, sanno inquadrare una generazione confusa, abbondantemente matura per l’anagrafe ma nella pratica condannata a rimanere chissà per quanto adolescente. Al di là di ogni giudizio di merito, alla Garrincha hanno saputo creare qualcosa definibile come “senso di appartenenza”, un risultato che non molti riescono a conseguire. Se solo l’avessero fatto con titoli di incontestabile spessore, lo champagne scorrerebbe a fiumi.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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