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È ancora musica ribelle: il rock sempre attuale di Eugenio Finardi

Prosegue il fortunato tour in cui Eugenio Finardi ripropone il suo storico repertorio di metà ’70, e in particolare il secondo album “Sugo”. Mai “nostalgia” fu più al passo con i tempi.
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A cura di Federico Guglielmi
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Eugenio Finardi
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La Torre di Babele

Eugenio Finardi non ha quasi mai avuto un rapporto facile con quello che è considerato il suo periodo aureo, cioè il triennio 1976-1978. “Aureo” non esclusivamente sul piano della qualità musicale (nell’ampia ed eclettica produzione del cantautore milanese non mancano comunque altre gemme), ma anche per quanto concerne la capacità di incidere sul mercato e sul tessuto sociale; quindi, di essere un ideale interprete del proprio tempo, una figura in qualche modo di riferimento persino al di là degli aspetti artistici, con tutte le contraddizioni e i rischi che ciò comportava. Ad esempio, quello di trovarsi in situazioni pericolose nel senso letterale del termine, perché quei ’70 – chi li ha vissuti lo sa bene – erano davvero problematici. "Il clima era molto critico", mi raccontò Eugenio alla fine del 2014, quando lo intervistai per festeggiare, su “Classic Rock”, i quattro decenni trascorsi dall’uscita del suo primo LP “Non gettate alcun oggetto dai finestrini”, "specie per il discorso delle autoriduzioni dei prezzi dei concerti. Una volta sfondarono con un autobus i cancelli del Palasport dove mi stavo esibendo di spalla alla Premiata Forneria Marconi… a un altro ruppero tutti i vetri del palazzetto tirando pietre da fuori. A casa avevo un acquario pieno di sassi sui quali, con la vernice indelebile, avevo scritto le date in cui mi erano stati lanciati sul palco. I tre spot che mi illuminavano dal mixer servivano per valutare le traiettorie di quello che mi veniva tirato, per poterlo schivare. Prima di suonare mi capitava spesso, per la tensione, di vomitare. E una volta, a Padova, addirittura, mi spararono, non addosso ma poco sopra: ho sentito qualcosa tipo tre colpi di rullante fuori tempo e così mi sono girato verso il batterista per domandargli cosa stesse combinando e lui, pallido, mi ha indicato la parete di compensato bianco che avevamo alle spalle, con la U de L‘Unità dipinta: a venti centimetri dall'ombra della mia testa c'erano tre fori di proiettile. Così ho detto al microfono che non volevo morire per qualche canzonetta e siamo andati via. Ovviamente si è scatenata una sassaiola". Oggi, per fortuna, questo non accade più; sicuramente certi eccessi non ci mancano, ma magari ci sarebbe bisogno di più gente che si indigna e propone, con veemenza, alternative alla narcosi quotidiana. L’ultimo tour vorrebbe essere una revisione non retorica di quei giorni di grandi ideali e non meno grandi illusioni.

“Sugo” è il secondo LP di Finardi, pubblicato nel 1976 dalla stessa Cramps Records – la nostra etichetta indipendente più geniale e folle di sempre – che aveva marchiato l’esordio e che l’anno dopo avrebbe dato alle stampe l’altro capolavoro “Diesel” (nonché, più avanti, i due album “del riflusso”, ovvero “Blitz” e “Roccando Rollando”). Nel tour, che si sta snodando attraverso la Penisola dalla scorsa primavera (in mezzo, a mo’ di cerniera, ci sono state tre tappe in Cina), il disco è riproposto interamente: una sequenza di dieci canzoni di grande incisività e bellezza, orecchiabili ma politicamente impegnate, aperta da quella che più di ogni altra è diventata inno: “Musica ribelle”. "Io mi ponevo in antitesi ai cantautori", mi disse ancora Eugenio nel 2014, "il testo di ‘Musica ribelle' è significativo: ‘e le strofe languide di tutti quei cantanti / con le facce da bambini e con i loro cuori infranti'. E poi mi piaceva essere diretto, detestavo quell'ermetismo che andava per la maggiore fra i cantautori impegnati e che secondo me era antipopolare. La mia decisione di comporre pezzi in italiano fu razionale e politica. Non ho “tradotto” la musica angloamericana, ho creato un modello che era rock ma non rientrava in un alcun filone specifico. Non ero prog, non ero hard, non ero fusion. Suonavo la chitarra acustica come Richie Havens a Woodstock, in modo ritmico, picchiato, e il ritmo seguiva quello dei testi in italiano, inevitabilmente diversi da quelli in inglese. Definivo il mio sound “ventoso”: ascoltando bene un brano come “Voglio”, si coglie la sua particolarità. Tutto ciò doveva sostenere testi che fossero perfettamente comprensibili, l'opposto di quelli dei cantautori che parlavano per metafore e si davano un tono complicando le cose semplici". Chiaro, no? E chissà se, dopo quarant’anni, il pezzo verrà alla fine capito fino in fondo, come auspicato dal suo autore in un’altra, mia torrenziale intervista del 2005: "È una costruzione ideologica, parte da un assunto: non era una canzoncina ma uno sviluppo del canto di lotta ‘Saluteremo il signor padrone', che nel primo LP avevo adattato in chiave rock. Mi piacerebbe che recuperasse il significato originale, invece di essere una sorta di icona che oltretutto ha condizionato la percezione di me: qualsiasi cosa abbia fatto in tutti questi anni, rimango quello della musica ribelle».

Evidentemente, Eugenio Finardi ha fatto pace con questa sua peraltro lusinghiera reputazione: così non fosse, il tour non si intitolerebbe “40 anni di musica ribelle”. Una sorta di recupero delle proprie radici, già avviato – con brani di scrittura recente – nell’ultimo, ottimo album “Fibrillante” (2014), che deriva da una ritrovata voglia di insorgere e non da una bramosia di passare all’incasso che comunque sarebbe più che legittima. Già, perché mentre nei Settanta i suoi colleghi incameravano denaro, l’idealista Eugenio non solo rischiava le pallottole, ma faceva pure più o meno la fame. "Credevo così tanto, nella nostra ‘missione', che – come, del resto, gli Area – accettavo che la Cramps non mi pagasse per le vendite: da loro vidi un solo assegno, di venti milioni, nell'aprile del 1979. Non è che Gianni Sassi, il capo, si arricchisse, ma buona parte delle produzioni Cramps sono state pagate con gli introiti dei miei dischi. Questo poteva anche andar bene, ma alle associazioni politiche che mi chiamavano chiedevo, oltre alle spese vive, solo l'equivalente della paga oraria di un tecnico della FIAT moltiplicato per il numero di ore che trascorrevo fuori casa per la trasferta. Dato che riempivo i Palasport con ventimila persone, ancora adesso incontro impresari che mi abbracciano ringraziandomi di quanto li ho fatti guadagnare, mentre io non vedevo quasi nulla. Aprii gli occhi alla fine del decennio grazie a Edoardo Bennato. Gli chiesi un parere sulla faccenda e lui, stupitissimo, mi guardò come si guarderebbe un pazzo e mi spiegò come girava il mondo". Per i parametri attuali, il tour sta funzionando bene, tanto per numero di date, quanto per presenze ed entusiasmo. Non siamo più nei torridi anni ’70, e i riflettori che servivano per calcolare le parabole degli oggetti contundenti illuminano oggi un carismatico, vitale sessantaquattrenne che continua a offrire un’appassionata, scintillante miscela di rock e canzone “alta”, predicando oltretutto concetti pregnanti. Vale senza dubbio la pena di ascoltarlo, e di battergli le mani.

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Federico Guglielmi si occupa professionalmente di rock (e dintorni) dal 1979, con una particolare attenzione alla musica italiana. In curriculum, fra le altre cose, articoli per alcune decine di riviste specializzate e non, la conduzione di molti programmi radiofonici delle varie reti RAI e più di una ventina di libri, fra i quali le biografie ufficiali di Litfiba e Carmen Consoli. È stato fondatore e direttore del mensile "Velvet" e del trimestrale "Mucchio Extra", nonché caposervizio musica del "Mucchio Selvaggio". Attualmente coordina la sezione musica di AudioReview, scrive per "Blow Up" e "Classic Rock", lavora come autore/conduttore a Radio Rai e ha un blog su Wordpress, L’ultima Thule.
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